C'era un tempo in cui gli occhi cercavano speranze a cui aggrapparsi, storie con cui illudersi, fantasie in cui credere. Con il cinema, un'ondata di racconti, personaggi e intrecci, nascono crescono e si insidiano nella mente fertile dello spettatore, attecchendo radici, alimentando sogni e utopie. Si imprimono così nuovi modelli da seguire, nuove gallerie umane da emulare. Con il western prende vita la figura dell'eroe indomito, coraggioso, pronto a sacrificarsi in nome dei propri ideali e della propria terra. Un uomo che si fa al contempo corpo e anima dell'ideale perfetto di nazione, giacimento aureo di valori e virtù tipicamente (e ipocritamente) statunitensi. Con le screwball comedies e le commedie romantiche, invece, il cuore batte forte, l'idea di amore perpetuo si fortifica e, con esso, lo scontro inesorabile con la realtà al di là dello schermo.
Era un tempo di eroi e di promesse, di sogni e illusioni. Poi qualcosa cambia; gli anni passano e la realtà inizia pian piano a sbattere contro lo specchio delle meraviglie; lo sfiora, lo tocca e poi lo scheggia, insidiandosi tra le sue crepe per mostrare stralci di una quotidianità che alle grasse risate, o alle grande imprese, alterna adesso pianti, urla, disperazione. Al mondo edulcorato dell'eterna perfezione, si fa spazio quello dei mostri, delle paure miste a crimini e sospetti (Alfred Hitchcock), all'incubo (l'espressionismo tedesco), ai turbamenti interiori e le crisi generazionali (Martin Scorsese e la New Hollywood). Poi, ecco che qualcosa muta di nuovo: più lo schermo si rimpicciolisce, più la finestra sui sogni lascia spazio a quella sulla realtà.
Con gli occhi intrappolati tra i pixel di schermi sempre accesi, e inglobati nella rete dei social network, il pubblico si è ritrovato assuefatto dallo scontro con la propria quotidianità; abituato a essere bombardato da informazioni, notizie, e condivisioni di conoscenti e amici, si è sviluppato inconsciamente in lui un'indole tendente verso la ricerca di qualcosa che gli assomigli, piuttosto che modelli a cui aspirare. Impegnato nella ricerca del reale anche sullo schermo cine-televisivo, lo spettatore non intende mettersi a confronto con santi e divinità, eroi e salvatori: nello spazio di un'inquadratura ricerca adesso parti di se stesso, frammenti di umana imperfezione, così da sentirsi meno solo, meno difettoso.
La solitudine dei numeri uno
Al cinema e soprattutto in TV si è sviluppata nel tempo un'involuzione dell'eroe verso una sua tipizzazione più fragile, insicura, a tratti colpevolizzante ed errata; un processo che prende seno dalle azioni di Walter White in Breaking Bad, e da quelle di un uomo dalla vita apparentemente perfetta, che preferisce vivere all'ombra di una bugia, pur di nascondersi dalla vergogna del proprio passato come Don Draper in Mad Men. Se quelle qui nominate rientrano ancora in produzioni seriali dove l'uomo ha preferito vestire i panni dell'anti-eroe nel contesto delle proprie azioni, negli ultimi anni gli showrunner hanno preferito puntare su esistenze fittizie di menti fragili.
Il centro dell'attenzione si è rivolto, cioè, sempre più all'interno, su ciò che l'essere umano pensa, elucubra e rivolge nello spazio della propria sfera interiore e psicologica; un auto-sabotaggio che solo in secondo luogo va a intaccare le vite altrui, perché chi viene steso al tappeto sul ring dell'esistenza è prima di tutto la mente e il corpo degli stessi protagonisti. La maschera che sono tenuti a indossare si scioglie alla luce di un sole che li brucia; il peso delle proprie insicurezze va a mescolarsi con quello delle bugie che raccontano a loro stessi rendendoli gobbi, piccoli, fanciulli pronti ad alzare bandiera bianca e rannicchiarsi, prima di riprendere fiato e ricominciare tutto da capo, bugie comprese.
The Bear e Ted Lasso: la fragilità che muove il cielo e le altre stelle
Nell'ultimo periodo, The Bear (qui la nostra recensione della seconda stagione) e Ted Lasso sono riusciti a farsi perfetti portavoce di questo scarto narrativo. I loro protagonisti sono raccoglitori umani di tante storie prima inascoltate, o addirittura ignorate. Trascinatori di una scialuppa che sta affondando (la squadra AFC Richmond in Ted Lasso, il The Original Beef of Chicagoland in The Bear) Ted e Carmy si fanno calcestruzzo pronto a riunire insieme i mattoni di strutture destinate a crollare. Ma più quelle realtà che stanno ricostruendo si ergono sotto nuove vesti, rigenerandosi come un'araba fenice, così - e in maniera inversamente proporzionale - i due sentono il peso delle proprie responsabilità, cedendo ai piedi di quel blackout personale fatto di mille paranoie e insicurezze.
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Calcio e cibo, senso di unità e stato d'ansia
Da una parte il calcio; dall'altro il cibo. Quelli che per una questione socio-culturale sono identificabili come due elementi conviviali, di unione e vicinanza, nell'universo di The Bear e Ted Lasso si fanno portatori di ansia, punti di accesso verso fragilità umane, porte aperte su un passato che ritorna, liberandosi dalle mura del proprio fortino mentale. Quei cannoli così invitanti, per Carmy Berzatto, ecco che si tramutano in acme mnemonico di un passato famigliare da cui ha tentato di allontanarsi, ma verso cui è stato ancora una volta risucchiato. Un paradosso, se vogliamo, non solo perché il protagonista di The Bear è uno chef di successo, ma anche e soprattutto perché figlio di una famiglia di origine italiana, e si sa quanto il cibo sia sinonimo di feste e unioni nel paese dello stivale. Ma il cibo per Carmy è un talento e una maledizione; in ogni odore che gli si imprime sui polpastrelli, ogni ferita da coltello che si procura, ogni decorazione eseguita, si cela il fantasma di una famiglia disfunzionale, a tratti tossica, il cui apice è occupato da quel fratello, Mike, mentore e nemico, complice e causa del ritorno di Carmy a quel nido di ricordi e traumi che è Chicago.
Per una padella che si riscalda, nell'universo di Ted Lasso c'è una palla che tenta di entrare in rete. Gli occhi dei tifosi sugli schermi televisivi, insieme ai loro giudizi imperanti, sono piccoli sassi che sfregiano la bolla personale del personaggio interpretato da Jason Sudeikis. Sono unghie che graffiano quella maschera di esuberante simpatia, rivelando una fragilità e un senso di solitudine così tanto celati. È il comico che fa ridere gli altri per nascondere la propria depressione, Ted. Un personaggio modellato come creta partendo dallo stesso materiale di cui erano, e sono forgiati, attori come Jim Carrey, o Robin Williams. All'ombra di ogni battuta, di ogni scherzo, o di ogni uscita colma di ingenuità, si rivela in Ted un fanciullo solo, che a ogni successo ottenuto, ogni legame ristabilito, e sorriso regalato, è chiamato ad affrontare il macigno insostenibile dei propri pensieri e della propria fragilità.
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Pugni e carezze
Suona il timer in The Bear, e a ogni squillo corrisponde un richiamo, un ritorno all'ordine che accumula pressione, spronando ogni personaggio in scena a concludere l'azione, tentare il proprio ultimo colpo, assetare il destro vincente come una lotta sul ring. Il ticchettio del tempo che passa è inesorabile. Gli sguardi si alzano al cielo per seguire quelle lancette che girano, per poi abbassarsi, pressati dall'idea di non farcela, di non essere abbastanza, di essere - come ricorda zio Lee (Bob Odenkirk) a Mike (Jon Bernthal) nella dilaniante sesta puntata della seconda stagione, "una nullità". Sostenuti da un montaggio dinamico, collage di zoom e carrellate, movimenti di macchina improvvisi, o pause infinite che tolgono il fiato, ogni personaggio in scena si fa ingrediente imprescindibile alla riuscita di una ricetta così gustosa nel suo essere umanamente dolce-amara che è The Bear.
Ma se la scrittura della serie disponibile su Disney Plus gioca tutto sull'introspezione psicologica dei personaggi, inserendoli in un contesto quanto mai reale, tra comprensione, ambizione, scatti di ira e frustrazione, il successo di Ted Lasso vira tutto sullo scarto antitetico tra umorismo e profondità d'animo. Nel suo essere parte integrante del genere commedia, la serie ideata da Bill Lawrence, Jason Sudeikis, pone le proprie fondamenta su un'irresistibile simpatia, per poi atterrire improvvisamente lo spettatore con uno schiaffo in pieno volto. Sono momenti di cadute, di fragilità, di ansia e attacchi di panico, che colpiscono agli stinchi lo spettatore, come un tackle in scivolata ai danni dell'avversario. È in questo braccio di forza tra risate e lacrime, sorrisi e strette allo stomaco che Ted Lasso ha saputo raccogliere la propria bellezza, senza tradire mai la propria natura. Nel personaggio di Sudeikis non c'è la forza sfrontante del Tony D'Amato di Ogni maledetta domenica: in lui c'è una sensibilità che si annida silente tra i meandri della propria insicurezza, e che l'uomo traduce in ondate di irresistibile simpatia e ottimismo, quasi per esorcizzare e placcare il proprio dolore. Ma è solo un anestetizzante temporaneo: mancherà poco perché la paura ritorni, e la testa giri come un pallone in aria di rigore.
Così forti all'esterno, così fragili e frantumati all''interno: Ted Lasso e Carmy Berzatto sono dunque gli ultimi anti-eroi della serialità americana. Anti-eroi non perché cattivi, oscuri, ma perché maledettamente umani, fallaci, imperfetti: insomma, reali.