L'America a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta è sempre stata una delle ambientazioni predilette dei film diretti e/o scritti da Ethan e Joel Coen: l'America del benessere, dei manifesti pubblicitari, delle villette immacolate dei quartieri residenziali; un'America ancora refrattaria ai mutamenti sociali del periodo immediatamente successivo, e talmente ossessionata dalla propria, inviolabile idea di perfezione da essere disposta a tutto pur di preservarla da ogni potenziale fonte di 'disturbo'.
Se un anno fa i Coen dipingevano un sardonico ritratto della Hollywood classica nell'irresistibile Ave, Cesare!, fra le bizzarrie dello show business e le paranoie della Guerra Fredda, con Suburbicon, presentato in concorso al Festival di Venezia 2917, è invece George Clooney, di nuovo in veste di regista, a riprendere in mano un vecchio copione dei due fratelli del Minnesota, risalente addirittura all'epoca di Blood Simple - Sangue facile e perfettamente in linea con la poetica coeniana e con i suoi elementi distintivi.
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No country for black men
Ambientazione di Suburbicon è la fittizia cittadina eponima, presentata in apertura come un microcosmo idilliaco, il teatro a tinte pastello dell'American Dream. Ma dietro la patinata superficie di questa "pastorale americana" fanno capolino fin da subito ipocrisie e storture; e a farle emergere, manco a dirlo, è l'arrivo di una nuova famiglia, i Meyers, afroamericani, nella villetta accanto a quella dei Lodge, nel cuore di un 'paradiso' fino ad allora totalmente bianco e ferocemente desideroso di restare tale. Ma mentre attorno ai Meyers monta sempre di più l'aperta ostilità dei loro concittadini, i Lodge - Gardner (Matt Damon), sua moglie Nancy (Julianne Moore), la cognata Margaret (sempre la Moore) e il figlioletto Nicky (Noah Jupe) - si troveranno a dover fronteggiare un altro problema: l'irruzione notturna, nella loro casa, di due rapinatori che tengono l'intera famiglia in ostaggio, con tragiche conseguenze.
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Da qui in poi, è bene svelare il meno possibile di un intreccio che, dopo questo spiazzante incipit drammatico, prosegue fra costanti colpi di scena, repentini rovesciamenti delle sorti dei personaggi e arditi cambiamenti di registro: dal thriller alla satira di costume, dal noir al grottesco, secondo l'inconfondibile tradizione dei fratelli Coen. E uno degli aspetti più intriganti di Suburbicon, tra i suoi maggiori motivi di fascino, risiede proprio in questa natura ibrida e multiforme: Clooney e i Coen giocano infatti con alcuni archetipi del noir classico, a partire dalla doppia figura femminile incarnata dalla Moore, strizzano l'occhio a La fiamma del peccato di Billy Wilder e affidano ad Oscar Isaac il breve ma incisivo ruolo dell'astuto detective Roger, ennesima pedina in un complesso gioco fra il gatto e il topo destinato - ovviamente - a una deriva fuori controllo.
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"Sangue facile" nell'America dei Fifties
Matt Damon, nei panni di un padre e marito che pare più volte in balia delle circostanze, presta il volto a un altro, tipico everyman del cinema dei Coen: un individuo destinato a rivelarsi un inetto fra gli inetti, ovvero la sorte implacabile iscritta nel codice genetico di innumerevoli antieroi coeniani. Perché, a dispetto di tutti i nostri sforzi, è il caos, o peggio ancora un caso beffardo e inesorabile, a disintegrare con diabolica puntualità i progetti degli esseri umani, in un costante ribaltamento dei rapporti di forza che, in Suburbicon, assume il ritmo di una girandola tanto macabra e cupa quanto, a tratti, esilarante. Fra strategie criminali più o meno fallimentari (Fargo docet) e le esplosioni pulp che deflagreranno una dopo l'altra nella trascinante parte finale, il film di Clooney disegna un affresco al vetriolo sia della società americana nel complesso, sia della sua "colonna portante": quell'istituzione familiare che in Suburbicon viene sottoposta alla più atroce delle dissacrazioni.
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Fra un Matt Damon efficacissimo, Julianne Moore e Oscar Isaac pronti a rubare la scena e un drappello di ottimi caratteristi, a distinguersi nel cast è anche il piccolo Noah Jupe nella parte di Nicky: il punto di focalizzazione privilegiato dello spettatore (non a caso è da una sua clamorosa scoperta che scaturisce il principale twist del racconto), nonché l'emblema di un'innocenza e di una purezza non ancora contagiate dagli spettri dell'avidità e del razzismo. Un tema, quest'ultimo, che Clooney e il suo co-sceneggiatore Grant Heslov sviluppano in parallelo alla trama primaria, con sequenze che evocano sinistri rimandi all'America del presente (le manifestazioni dei suprematisti bianchi e i rigurgiti neonazisti), ma con un epilogo da cui, nell'apoteosi di sangue e di violenza, sembra filtrare pure un flebile raggio di speranza.
Movieplayer.it
3.5/5