Giro di boa al Festival di Berlino. La kermesse, ormai entrata nel vivo, a questo punto della manifestazione non permette ancora di fare pronostici su chi vincerà, ma le indicazioni che provengono dai lavori fin'ora presentati in concorso sono abbastanza chiare. A eccezione de Il petroliere, pellicola di grande potenza significante che richiede più di una visione per comprendere appieno la straordinaria operazione registica compiuta da Paul Thomas Anderson, la maggior parte dei film non si distacca di molto da quell'aurea mediocritas che sembra ricorrere come leit motiv del festival. Pochi gli entusiasmi tra i rappresentanti della stampa internazionale. Se, come accade a Venezia, adottiamo gli applausi di fine proiezione come termometro di gradimento immediato, dobbiamo precisare per dovere di cronaca che fin ora nessuna pellicola si è distinta per aver ottenuto particolari ovazioni, piuttosto stupisce il fatto che anche un film di dubbia qualità come il tedesco Cherry blossoms - Hanami di Dorris Dörrie abbia salomonicamente ottenuto il suo piccolo plauso di dichiarata impronta campanilistica.
A far la parte del leone, qualitativamente parlando, sono le cinematografie di paesi sulla carta meno blasonati, ma in netta crescita sia dal punto di vista artistico che produttivo. Arriva dall'Iran la più bella sorpresa del concorso, il delicato The song of sparrows di Majid Majidi che, fin dall'incipit, dichiara apertamente il proprio debito alla matrice neorealista zavattiniana, dimostrando di aver attinto al meglio della nostra cinematografia filtrandolo, però, attraverso una sensibilità tutta mediorientale. Il risultato è un piccolo grande film che diverte e commuove come solo i lavori girati con pochi mezzi, ma tanto cuore e cervello sanno fare. Curioso e divertente il messicano Lake Tahoe, surreale 'giorno di ordinaria follia' ambientato nella periferia di una città messicana ai margini del deserto dove il sedicenne Juan deve vedersela con i problemi familiari dovuti alla recente morte del padre, con la macchina che si è rotta e non ne vuol più sapere di ripartire e con tutti i curiosi personaggi in cui si imbatte nel tentativo di trovare il pezzo di ricambio che gli occorre. Paesaggi assolati e semidesertici fotografati da lunghi piani fissi, sceneggiatura ridotta all'osso e attori sconosciuti per una commedia che ha riscaldato gli animi e strappato più di una risata col suo humor naive e strampalato.
Delude in parte, invece, l'atteso nuovo lavoro di Isabel Coixet che dopo lo straordinario La vita segreta delle parole si tarpa le ali scegliendo di adattare un romanzo ostico e non particolarmente riuscito, L'animale morente di Philip Roth realizzando un prodotto in cui, al di là della bellezza della regia e delle buone interpretazioni di tutto il cast, grava la pesantezza di una trama lenta e soffocante alleggerita in parte dagli scambi di battute brillanti tra il protagonista Ben Kingsley e l'amico Dennis Hopper. Poche, ma sostanziali le modifiche al romanzo originale: oltre alla scelta di ampliare la parte interpretata da Hopper per dare spazio alla sua recitazione ruvida e scanzonata, il cambiamento principale riguarda la decisione di smorzare la dimensione erotica che, ben presente nel romanzo, sul grande schermo si riduce a pochi ma essenziali passaggi che danno il senso della relazione sentimentale che si instaura tra i due protagonisti del film. Non brilla particolarmente neppure il nuovo lavoro di Johnny To che ormai ci ha abituato a una rigorosa alternanza tra violenti gangster movie e curiose commedie citazioniste; alla seconda categoria appartiene Sparrow, divertissement che narra le disavventure di una banda di borseggiatori in cui irrompe un'affasciante e pericolosa dark lady. Intrattenimento piacevole che però non aggiunge nulla di nuovo alla poetica del regista di Hong Kong.
Difficile pensare che possano puntare alla vittoria anche le altre pellicole asiatiche viste fin ora: sia il coreano Night and day che il cinese In love we trust, al di là di un'eccessiva lunghezza, offrono ben poco sul piano contenustico e sono accomunati dalla lentezza nel ritmo narrativo e da personaggi non particolarmente brillanti. Più interessanti e godibili sono risultati il finlandese Black ice, thriller tutto al femminile diretto da Petri Kotwica, che mantiene alta la tensione mediante continui stravolgimenti del punto di vista e classici scambi di identità che mescolando costantemente le carte in tavola, e il brasiliano Tropa de elite, duro affresco che deuncia i metodi violenti e la corruzione della polizia brasiliana che, a causa dei temi trattati e dello stile mainstream, ha riscosso enorme successo in patria. Sempre a proposito di temi scottanti, l'unico documentario presente in concorso è il lavoro di Errol Morris Standard operating procedure dedicato allo scandalo dei maltrattamenti sui prigionieri avvenuti nel carcere di Abu Ghraib. Importante progetto di denuncia declinato in maniera discutibile: non ha, infatti, convinto pienamente la scelta di raccogliere unicamente testimonianze unilaterali dei soldati di stanza nel carcere senza dar voce ad altri soggetti coinvolti nella vicenda. Il regista ha cercato di spiegare le sue ragioni in conferenza stampa senza però risultare troppo convincente di fronte agli scettici giornalisti.
Delude anche il lavoro di Eric Zonca, Julia, ispirato a Gloria - una notte d'estate di John Cassavetes, film a cui era già bastato il remake interpretato da Sharon Stone nel 1998 e del quale non si sentiva certo bisogno di un'ulteriore rivisitazione. E se Gardens of the Night, film a tesi sui ragazzi di strada e sulla prostituzione minorile, non ha certo l'allure del capolavoro, il più imbarazzante tra i film in competizione visti fino a questo momento è proprio il tedesco Cherry blossoms - Hanami, polpettone pseudoturistico che fonde i luoghi comuni sulla Germania - Baviera in primis - a quelli sul Giappone, proponendo inquadrature che sembrano uscite da un filmato promozionale Valtour i cui colori pastellati, tipici delle decorazioni laccate degli orologi a cucù, degradano in accecanti controluce degni dei sovraesposti filmini delle vacanze in Super 8 che tutti custodiamo gelosamente in soffitta. E mentre attendiamo di conoscere l'accoglienza che il Festival riserverà al nostro Caos Calmo, si aggiunge a sopresa nella lista dei possibili vincitori l'irresistibile commedia del grande vecchio Mike Leigh Happy go-lucky, inno alla positività dell'esistenza e alla gioia di vivere che ha incantato gran parte della stampa. Per Leigh è la prima volta in concorso a Berlino. Chissà che al suo già ricco palmares non possa aggiungersi presto anche un Orso.