Da Stranger Things a Emily in Paris: ha ancora senso dividere in due parti le serie Netflix?

Emily in Paris sta facendo parlare di sé per un motivo in più del solito, ovvero la divisione in due parti che secondo qualcuno starebbe facendo male alla serie Netflix e alla sua trama: sarà vero? Occhio agli spoiler!

Lily Collins e Lucas Bravo in Emily in Paris

Netflix ha inventato il binge watching. O meglio, il primo servizio streaming della storia e il nuovo tipo di fruizione dei contenuti - gli episodi di una serie/stagione disponibili tutti insieme il giorno d'uscita e non più centellinati con una puntata a settimana - sono nati di pari passo, per una questione di necessità di programmazione e linea editoriale che andasse a rivoluzionare ciò a cui gli spettatori erano stati abituati in precedenza. Con l'aumentare dei contenuti e delle piattaforme, però, ben presto ci si è resi conto che la "vita di una serie tv", ovvero il tempo materiale in cui se ne possa fare promozione e discuterne, si riduceva drasticamente. Soprattutto quando non arrivava più solo una serie al mese e solo su Netflix, ma molti altri titoli sparsi sugli altri servizi che iniziavano la cosiddetta "guerra dello streaming".

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Emily in Paris 3: Mano di Mercoledì a Parigi per la premiere della serie Netflix

Quale soluzione quindi per andare contro la bulimia seriale imperante e per trattenere più tempo possibile i propri abbonati e non solamente nel mese gratuito di prova in cui gli utenti si recuperavano ciò che volevano vedere e poi passavano ad un altro servizio (strategia non più attuabile, perché se ne sono resi conto ai piani alti)? Piattaforme come Disney+ e Apple TV+ fin dal loro debutto mondiale hanno optato per la messa in onda settimanale, esempio seguito anche dalla più recente Paramount+ (Prime Video fa avanti e indietro tra le due opzioni senza una chiara logica dietro, spesso controproducente).

Netflix non poteva (non può) comportarsi allo stesso modo perché sarebbe come andare contro ciò che rappresenta e contro la propria linea editoriale peculiare e distintiva. Che fare a questo punto? La soluzione pensata due anni fa fu la seguente: dividere le stagioni delle sue serie di punta - rivelando anche indirettamente quali sono, oppure sperimentare su alcuni titoli per capire se reggono sulla lunga distanza - in due o più parti, per allargare il bacino d'attenzione e non ridurlo a un weekend/una settimana/un mese. Una scelta vincente? Scopriamolo in questo nostro speciale, ricordandovi che potreste incappare in qualche spoiler se non avete visto i titoli di cui parliamo.

Tutto parte da Stranger Things

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Una delle scene più iconiche della quarta stagione

L'idea di dividere le stagioni dei propri originali non poteva che partire dalla serie più pop e di punta del colosso dello streaming: Stranger Things. Proprio colei di cui aspettiamo la quinta ed ultima stagione nel 2025 (le riprese sono tutt'ora in corso e dureranno fino a dicembre, 12 mesi totali, un record per una serie tv!). La quarta stagione fu mandata in onda nel 2022 in due parti e mesi differenti anche se non fu una vera e propria divisione a metà. Il "finale di mezza stagione" - chiamiamolo impropriamente così, in ricordo di quelli che erano i tempi e le programmazioni della televisione generalista - era quasi un finale di stagione per ciò che portava a livello narrativo (con la rivelazione sull'identità di Vecna, rischiando quindi anche lo spoiler per il pubblico).

Tanto da far diventare la seconda parte quasi un orpello aggiuntivo (composto da due film lunghi più di due ore, piuttosto che dallo stesso numero di episodi della prima metà, ovvero 7), dato che già si sapeva ci sarebbe stata una quinta ed ultima stagione e quindi la battaglia finale andava necessariamente rimandata (così come il destino di Max, per dirne una). Ecco quindi un primo possibile passo falso a livello narrativo, ma non di marketing: di quella quarta stagione si parlò per mesi, ancora di più se fosse arrivata tutta insieme in una volta sola.

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Avvocato di difesa

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Manuel Garcia-Rulfo è Mickey Haller in tv con la sua Lincoln

Seconda prova (un po' a sorpresa) successe con Avvocato di difesa (in originale The Lincoln Lawyer), una delle serie più generaliste sulla piattaforma, un procedurale orizzontale del re dei legal drama David E. Kelley con protagonista Manuel Garcia-Rulfo. Da questa scelta capimmo che si trattava di un titolo su cui il colosso dello streaming puntava - o almeno voleva provarci sperimentando questa nuova tecnica di pubblicazione delle puntate. Il risultato? Una stagione sconnessa e non ben divisa a livello narrativo, probabilmente rimaneggiata per essere trasmessa in due tornate. La riprova? Uno strascico dal caso della stagione precedente si risolve nelle prime due puntate, per poi passare alla nuova indagine con la new entry Lana Parrilla, frammentando quindi ancora di più la narrazione.

The Crown

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Le tre regine della serie Netflix

Il gran finale del fiore all'occhiello a livello qualitativo di Netflix, ovvero The Crown, la serie di Peter Morgan sugli anni della Corona Inglese sotto la Regina Elisabetta II, non poteva che concludersi in due parti. Finalmente però anche con un senso a livello narrativo (tanto più che la divisione fu 4 e 6 episodi, e non 5 e 5 sui 10 totali). Nella prima metà si concludeva la storyline di Diana Spencer con la sua morte, una delle più grandi pecche derivate dalla stagione precedente. Nella seconda metà, la serie tornava ai fasti delle prime quattro stagioni ma, anche se così non fosse per qualcuno, è chiara la divisione a livello di storia per arrivare al commiato con le tre interpreti della regina: Claire Foy, Olivia Colman e Imelda Staunton.

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Bridgerton

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Penelope & Colin, la coppia al centro della stagione 3

Non poteva esimersi dalla divisione a metà uno dei titoli più chiacchierati del servizio streaming, come direbbe Lady Whistledown. Stiamo parlando ovviamente di Bridgerton che quest'anno è stata divisa perfettamente in due nei suoi 10 episodi (quindi 5 e 5). In molti si sono lamentati della suddivisione con poco appeal, nonostante un colpo di scena importante assestato al centro, della stagione. Forse non prevista inizialmente a livello di scrittura, che quindi ha peccato di proporre una prima parte fin troppo introduttiva sulla storia tra Penelope (Nicola Coughan) e Colin (Luke Newton), spezzando il ritmo della narrazione, rimandando al mese successivo la risoluzione della coppia. Eppure è stato uno dei titoli record a livello mondiale di visualizzazioni.

Cobra Kai

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Cobra Kai 6: una scena

Anche Cobra Kai, dopo The Crown, sembra aver trovato la propria misura nella divisione in più parti della stagione. Lo ha fatto con un record di divisioni (finora, aspettiamo appunto l'ultima stagione di Stranger Things il prossimo anno), ovvero ben 3 parti in 7 mesi da 5 episodi ciascuno (per 15 in totale, un maxi rush finale insomma, dato che finora erano stati sempre 10). Nonostante alcuni difetti riproposti, come il demitizzare la saga originaria di Karate Kid e quindi proporre un tipo diverso di legacy sequel approfondendo i personaggi ribaltandoli e buttando troppo spesso tutto in rissa e caciara. A vincere però è sicuramente la durata rispetto all'altra hit, ovvero episodi da 30-40 minuti. A novembre e febbraio, rispettivamente, concluderemo anche questo action comedy serial: l'onda lunga sicuramente qui si sta rivelando vincente a livello di comunicazione e chiacchiericcio.

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Emily in Paris

Chiudiamo il nostro speciale con l'ultima arrivata in ordine temporale, ovvero la Emily in Paris di Lily Collins e Darren Star. Alla quarta stagione, la serie Netflix è stata divisa in due parti, la prima ambientata a Parigi e la seconda (lo sappiamo già, dato che sono venuti a girarla qui da noi) settata in Italia. La comedy (di nuovo episodi da 30 minuti dopo Cobra Kai) rimane se stessa e, sebbene proponga un finto colpo di scena nel "finale di mezza stagione" poiché abbastanza prevedibile, ha il merito di recuperare brio e soprattutto chiudere le storyline aperte ad inizio stagione.

Ne lascia però altre per i successivi 5 episodi, che vedremo a settembre (divisione perfettamente a metà anche in questo caso, lasciando invariato il numero totale). Più di qualcuno si sta lamentando della suddivisione che in questo caso che avrebbe spezzato il ritmo, soprattutto per una comedy leggera come questa, ma noi ci sentiamo di dire invece che la decisione sia stata presa con un certo ragionamento a livello di scrittura, anche grazie al doppio set rispetto al passato, che ci coinvolge in parte. Anche perché, immaginiamo, oramai Netflix sa quali serie vorrà distribuire in un certo modo, avendo il tempo di avvisare gli sceneggiatori e le produzioni. Vero anche però che il gancio per la parte 2 è decisamente debole, così come il rischio spoiler sulla scelta (già) compiuta dalla protagonista.

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Emily in Paris 4: una foto della protagonista Lily Collins

Quindi, riassumendo, la divisione in due parti delle serie Netflix non sempre riesce, perché deve essere studiata a tavolino a livello di writers room e non solo di marketing e comunicazione. Può essere un bene per allungare il bacino di discussione intorto ad un prodotto e non farlo durare sempre meno (un mese, una settimana, un weekend che sia, ovvero il tempo di rimanere nella Top 10 Netflix) ma allo stesso tempo non siamo sicuri che sia sempre questo il compromesso più riuscito tra binge watching e appuntamento settimanale.