Recensione Salvador (1986)

Un attacco nei confronti dell'America conservatrice, filo-reaganiana di quegli anni, quell'America che, nella visione del regista, ha smarrito le caratteristiche democratiche che furono alla base della sua nascita.

Stone colpisce ancora

Il giornalista Richard Boyle, nel tentativo di risollevare una carriera compromessa da alcool e problemi familiari, si reca nel Salvador con lo scopo di documentare la guerra civile in atto nel paese. L'uomo, giunto a San Salvador insieme al collega Rock, si troverà coinvolto nei violenti scontri che oppongono i guerriglieri e gli squadroni filo-governativi, finendo per prendere posizione contro la brutale dittatura vigente nel paese, appoggiata e finanziata dagli stessi Stati Uniti.

Di poco precedente al celebrato Platoon (i due film sono entrambi del 1986), questa è forse la prima opera in cui Oliver Stone mostra le caratteristiche che negli anni successivi diventeranno "cifra" stilistica di tutto il suo cinema: impeto "ideologico" sempre presente, tensione da vera e propria requisitoria cinematografica, forte componente autobiografica. Ispirato ad una storia vera, e scritto in collaborazione con quel Rick Boyle che fu il reale protagonista dei fatti narrati nel film, Salvador rappresenta il primo "affondo" del democratico Stone nei confronti dell'America conservatrice, filo-reaganiana di quegli anni, quell'America che, nella visione del regista, ha smarrito le caratteristiche democratiche che furono alla base della sua nascita per perseguire una politica votata al benessere di pochi, attuata anche tramite un "abbraccio" mortale con le dittature del centro-America. Una tensione morale ed ideologica molto forte, che nasce dall'esperienza personale di Stone (dapprima volontario in Vietnam e in seguito feroce oppositore di quella guerra), e che, nei suoi film, finisce per diventare primo elemento della narrazione, caratteristica fondante di tutta la sua costruzione cinematografica. Qui il rischio "retorica" è sempre dietro l'angolo, e il regista sembra esserne ben consapevole: la progressiva presa di coscienza dell'"avventuriero" Boyle è funzionale allo scopo divulgativo prefissatosi da Stone, finendo per mettere in secondo piano gli altri elementi della sceneggiatura (il personaggio di Rock, poco più che accessorio, o la storia d'amore con Maria, fidanzata salvadoregna del protagonista). Tuttavia, il film coinvolge e complessivamente funziona, in virtù della sincerità degli intenti di base, dell'abilità nel rappresentare l'evoluzione del personaggio di Boyle, da semplice avventuriero ad appassionato e schierato cronista, e di una credibile e riuscita rappresentazione dell'inferno salvadoregno (grazie anche alla buona fotografia semidocumentaristica), che deflagra letteralmente nella sequenza dello scontro conclusivo, anticipando il vero, personale "inferno" di Stone, la giungla vietnamita di Platoon.

Parte della riuscita del film è dovuta anche alla buone prove dei protagonisti, a cominciare dall'ottimo James Woods, che dà vita ad un Richard Boyle fragile quanto appassionato nella sua personale odissea, per continuare con un James Belushi che con questo ruolo dimostra una buona versatilità di attore, senza dimenticare i buoni "comprimari" John Savage ed Elpidia Carrillo.
Un film riuscito, dunque, appassionato anche se non sempre equilibrato, visibile sia a scopo didattico che come opera di fiction; un'opera, soprattutto, in cui quella retorica che in alcune prove successive del regista finirà per prendere il sopravvento viene tenuta a bada in nome di esigenze e meccanismi di coinvolgimento più tipicamente cinematografici.

Movieplayer.it

3.0/5