Manca ancora un po' di tempo fino all'uscita nelle sale italiane di Steve Jobs, l'originale biopic scritto da Aaron Sorkin per raccontare la complessa e controversa figura del fondatore della Apple, ma abbiamo avuto già modo di apprezzare il lavoro e discuterlo con i suoi regista Danny Boyle, a Roma per accompagnare il suo film e parlarne alla stampa. Subentrato a David Fincher dopo alcune vicissitudini produttive, non per ultimo il veto della vedova di Jobs e dei vertici Apple, il regista di Trainspotting ha affrontato l'enorme sceneggiatura dell'autore di West Wing dandole una forma visiva e cinematografica stimolante e personale, rendendo dinamico un testo che avrebbe rischiato di essere troppo statico e teatrale.
Lo script di Sorkin, infatti, si basa su tre momenti precisi della vita e della carriera di Steve Jobs, i tre momenti prima del lancio del Macintosh nel 1984, quello del computer Next del 1988 dopo essere stato allontanato dal consiglio di amministrazione della sua stessa azienda, e poi la rivalsa e l'inizio del percorso glorioso Apple iniziato nel 1998 con il lancio dell'iMac. Tre momenti costruiti essenzialmente sui dialoghi e sulla bravura degli interpreti, dal protagonista Michael Fassbender a Kate Winslet, Seth Rogen e Jeff Daniels, ma che il lavoro di Boyle valorizza e sottolinea con cura. Il regista ci ha parlato dell'esperienza nel corso del nostro incontro romano, spiegando le difficoltà insite nella realizzazione del film, la sua idea del personaggio rappresentato ed il suo impatto sul mondo contemporaneo. Senza nascondere un certo rammarico per il risultato al botteghino americano, a dispetto dell'apprezzamento generalizzato degli addetti ai lavori.
Boyle e Jobs
Che cosa pensa del personaggio di Steve Jobs?
L'immagine che avevo di lui era quella che veniva fuori dalle notizie, dagli articoli di giornali, dalle presentazioni pubbliche. Per questo nel realizzare il film ho preferito concentrarmi sul dietro le quinte, fermandomi prima dell'apparizione in pubblico. Non è un mio eroe, riconosco quello che ha fatto per definire il mondo in cui viviamo, nel bene e nel male, come sia stato una spinta decisiva per la direzione in cui il mondo si sta muovendo. Quella di Jobs era una figura di creativo, non troppo diversa da quella di un regista, non è necessario saper fare qualcosa materialmente, ma avere l'abilità di far credere agli altri in qualcosa che ancora non esiste. Si tratta spesso di un grande lavoro di squadra quando si arriva a questi traguardi, ma queste figure tendono a prendere tutto il merito; noi tendiamo semplicisticamente a idolatrare questi protagonisti. Credo però che ci sia una responsabilità morale nel modo in cui si fa questo lavoro e sposo la filosofia di Woz che dice che puoi essere una persona perbene e un genio allo stesso tempo, che non è un concetto binario e che l'essere stronzi è opzionale nel realizzare qualcosa di grandioso. L'appunto che Jobs fa a Woz è che lui avrebbe dato via la loro tecnologia e non avrebbero mai potuto costruire quello che hanno realizzato. Quelli che io ritengo gli eroi di oggi sono quelli che hanno fatto Wikipedia, che hanno messo in piedi l'enciclopedia della nostra conoscenza e l'hanno regalata, è gratis per oggi. Lo è un uomo che abbiamo celebrato durante la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Londra, l'inventore del World Wide Web Tim Berners-Lee che ha capito quale sarebbe stata la sua forza ed ha impedito alle grandi potenze di controllarlo. Ci sono tanti esempi del genere e queste sono le persone che ammiro.
Leggi anche: Steve Jobs: Il film che la Apple non voleva farvi vedere
Qual è stata la sua prima preoccupazione nel decidere di girare un film su Steve Jobs?
La prima vera preoccupazione è stata che la vedova, Laurene, non voleva che il film fosse realizzato. Infatti si è messa in contatto con tutti gli attori che eravamo interessati a scritturare dicendo loro di non lavorare al film. È stata una preoccupazione perché non si vuole mancare di rispetto per la sofferenza altrui e ci ho dovuto pensare a lungo prima di decidere di lavorare ugualmente al film. E l'ho fatto perché non la coinvolge direttamente, visto che gran parte della storia è ambientata prima che Jobs la incontrasse. Inoltre la biografia da cui siamo partiti è stata voluta e commissionata da Jobs stesso: esercitava il controllo su tutto, era ossessionato dal controllo, ma è stato lui in prima persona a volere che si scrivesse questa biografia e l'unico controllo che ha esercitato su di essa è stato sulla copertina. È come se avesse voluto che questa storia fosse raccontata in tutte le sue sfumature. Penso anche, però, come è stato anche il caso di The Social Network che Sorkin ha scritto prima, che sia necessario trattare queste grandi potenze, queste figure che controllano il nostro mondo più dei governi, non ci si può fermare dal fare film, scrivere libri, articoli o quant'altro, solo perché cercano di fermarti. E letteralmente hanno il potere di farlo.
Quindi è sulla combinazione di questi fattori, oltre alla consapevolezza di quanto il nostro mondo sia stato modellato dal lavoro di Jobs, che ho ragionato prima di lavorare al film. Non ho avuto nessuna riserva, invece, sullo script di Aaron Sorkin, che era estremamente lungo e molto poco cinematografico, quasi teatrale. L'ho vista come un invito, una provocazione, a tratte un film da esso. Io stesso vado a teatro, posso dire di amarlo, ma non è mai spettacolare, anche quando si tratta di una grande produzione è sempre molto immediato e concreto, lo guardi e sei sempre consapevole del fatto di essere nel pubblico. I film non sono così. Il buon cinema può essere coinvolgente, ci si può perdere dentro di esso e sentire di far parte della storia, di essere lì, perché è così che il nostro cervello e il nostro cuore funzionano. Volevo che lo spettatore si sentisse lì, in questi tre grandi momenti, ed assistere a questo incredibile scontro di cervelli e mondi.
Leggi anche: Steve Jobs: la vedova chiese a DiCaprio e Bale di rinunciare al film
Raccontare il mito di Jobs
Come sono stati scelti i tre momenti che vengono analizzati nel film?
Il 1984 era ovvio, per la risonanza che ha avuto e per il suo significato come inizio della rivoluzione nei confronti della posizione dominante dell'IBM, come sottolineato dallo spot realizzato da Ridley Scott. Il 1988 è interessante, perché Jobs era un grande narratore e uno dei compiti che ha chi racconta una storia è di farti dimenticare quello che non funziona. Nessuno ricorda i prodotti che non hanno funzionato ed il computer Next è uno di questi, lui l'ha fatto dimenticare. È interessante anche per il suo aspetto di vendetta, per come ha usato quel computer come cavallo di Troia per tornare in Apple. Il 1998 è il più significativo secondo me, perché l'arrivo dell'iMac ha realmente contribuito al percorso su cui ci troviamo oggi. È stato il primo computer veramente cool, qualcosa che volevi possedere, che eri fiero di avere, col quale potevi impressionare le persone avendolo, non usandolo. Ha chiaramente immaginato che un giorno noi avremmo portato questi oggetti a letto con noi, sembra ridicolo se ci pensiamo, ma è così, è letteralmente l'ultima cosa che guardiamo prima di dormire e la prima che controlliamo al risveglio. È stato l'inizio di quello che abbiamo oggi, con Internet nelle mani di tutti, non nelle casa, ma nelle tasche. Ci siamo fermati lì, prima di arrivare a iPod, iPhone e iPad, perché non volevamo fare un biopic tradizionale.
C'è un motivo per l'abbondanza di biopic degli ultimi anni e come si è confrontato con essa? Credo che dipenda da una mancanza di fiducia degli scrittori per quello che il cinema sta diventando, dominato da produzioni enormi e sequel su sequel, da Jurassic World a Fast & Furious, 007 Spectre e l'imminente Star Wars. Per questo i narratori si spostano verso quello che pensano possa vendere, verso queste figure famose. Si è creata una spaccatura tra le grandi produzioni ed i piccoli film da premio che cercando di trovare il loro spazio e la Awards Season è favorevole a film biografici. Nel farli però è interessante cercare di sorprendere il pubblico con la forma usata, realizzare qualcosa di originale come Love & Mercy, che è un biopic particolare che prende i suoi rischi.
Come ha lavorato con Michael Fassbender? Ci sono state discussioni? Ha avuto difficoltà a memorizzare un copione così lungo e complesso?
È straordinario! Non si può dire che impari lo script, piuttosto lo assorbe. Abbiamo iniziato a girare a gennaio e sono andato a trovarlo in Australia a novembre e ogni giorno lui leggeva ad alta voce a sé stesso, tre o quattro volte al giorno. Non cercava di impararlo, non come si studia per un esame coprendo parte del testo per vedere se lo si ricorda, si limitava a leggere ad alta voce. Fino a quando non abbiamo iniziato a girare, ha continuato a leggere ad alta voce ogni giorno. Lo ha assorbito, quasi come si può assimilare qualcosa attraverso la pelle. Quando giri un film, gli attori hanno con sé fogli con i dialoghi delle scene del giorno, ma non ho mai visto Michael guardare lo script sul set, non una volta, e non ha sbagliato una sola parola, conosceva tutto il testo meglio di Sorkin e suggeriva agli altri attori quando capitava che dimenticassero qualcosa. Perché l'aveva fatto suo e sono sicuro che sia così per ogni suo ruolo. In questo caso ovviamente è stato diverso perché c'era così tanto da imparare, ma non ha cambiato il suo modo di lavorare. È quasi un'osmosi.
Rispetto alla storia che conosciamo, ha scoperto dei nuovi aspetti della vita di Jobs e quanto avete cercato di restare attinenti alla realtà per non deludere i fanatici del personaggio e della Apple?
Trovo incredibile che quest'uomo, che era uno dei più ricchi e potenti del mondo, che quando lo abbiamo scoperto nel 1984 già valeva quattrocento milioni di dollari, soffrisse così tanto dell'abbandono da parte dei genitori e che avesse portato con sé questa sofferenza per tutta la sua vita, tanto da renderla qualcosa che ha formato tutta la sua filosofia e il suo modo di lavorare. Come diciamo nel film, si sentiva impotente e aveva bisogno di essere in totale controllo. Così ha creato anche prodotti su cui potesse averlo con i loro sistemi chiusi, attraverso di essi ha dato potere a tutto il mondo, ma ha voluto mantenerlo per sé perché sentiva di non averne nella vita. Questo aspetto ha modellato la sua filosofia di lavoro, la sua visione del mondo che ha creato. Ed ha riservato alla figlia lo stesso rifiuto che lui ha provato. Se fosse un lavoro di finzione, lo bollereste come insensato, pieno di stereotipi, ma è qualcosa che ha ammesso lui stesso al suo biografo. Noi ci siamo limitati a prendere questi aspetti di Jobs e creare una tesi basata su essi, ovvero che Steve Jobs ha incanalato il suo amore nei suoi prodotti, realizzando qualcosa che gli utenti potessero amare e attraverso essi amare anche lui, creando un circolo di amore che dovrebbe verificarsi tra esseri umani, ma che si realizza mediante le sue macchine. La cosa assurda è che gli stiamo dando ragione, no? Perché siamo legati a questi oggetti, in un modo che è quasi inconcepibile, li portiamo a letto con noi, gli affidiamo segreti che non scriveremmo nemmeno in un diario, fotografie intime con l'illusione che siano solo al loro interno, mentre tutti questi dati che sentiamo protetti sono a disposizione della casa produttrice. Facciamo una foto sexy con Snapchat e poi che sparisca per sempre, ma Snapchat ha tutte le tue foto! E mentre è riuscito a creare questo rapporto di amore tra lui e gli utenti attraverso le sue macchine, ha trattato la figlia, di cui sapeva di essere il padre, peggio di quanto lui stesso sia stato trattato da bambino. Psicologicamente la trovo una cosa affascinante da raccontare.
La sfida di Aaron Sorkin
In che misura la sceneggiatura di Sorkin era blindata e intoccabile?
In realtà Sorkin è stato molto disponibile. Ha la reputazione di essere molto difficile, ma non lo è stato affatto e abbiamo cambiato diverse cose che hanno richiesto anche delle riscritture. Un esempio su tutti è la scena con Woz nella terza parte, che originariamente era ambientata in un camerino soltanto con loro due, ma io ho voluto che fosse in pubblico, davanti a questi nuovi ragazzi di Apple, questa sorta di discepoli con le magliette dell'azienda. È un po' anacronistico perché gli Apple Store non erano ancora stati aperti, ma è sicuramente qualcosa che lui aveva già in mente perché i primi sono stati inaugurati tre anni dopo, con i suoi accoliti a diffondere il verbo. E Sorkin ha riscritto la scena in modo brillante, spostandola in un luogo pubblico. Un altro esempio riguarda Joanna Hoffman. Kate Wislet è stata in contatto con lei ed è stata lei a raccontarle di come Jobs fosse andato a casa sua all'una di notte e di come le abbia chiesto "Perché non abbiamo mai fatto sesso?" e la sua risposta "Perché non siamo innamorati." Dissi a Sorkin: "Aaron, dobbiamo metterla nello script" e lui l'ha fatto. E' stato molto disponibile in questi e in tanti altri casi, sapeva di avere un gran cast di attori all'opera e per questo si è affidato a loro.
Il film è stato percepito come un'opera molto legata al suo sceneggiatore. Lei si sente un po' il Wozniak di Sorkin in questa situazione o pensa che il lavoro sia paritario?
Oh, questa è interessante! Wozniak è venuto sul set e ci ha aiutati molto ed ha anche sviluppato un'amicizia molto forte con Seth Rogen. Woz non vuole più parlare di computer, gli piace fare trucchi di magia, che non sono nemmeno un granché a dirla tutta. Seth Rogen è l'uomo più gentile che esiste, sul serio, e credo che abbia visto in Woz qualcosa con cui identificarsi, il fatto che non abbia ricevuto molto credito per quello che ha fatto proprio per la sua bontà, perché i cattivi prendono tutto il merito. È così anche per Rogen, che tanti pensano che non sappia recitare, perché è un comico. Per quanto riguarda me e Sorkin, sono stato orgoglioso che mi sia stato chiesto di mettere in scena questo script, perché il film precedente scritto da Sorkin, The Social Network, è stato realizzato da Fincher ed è un lavoro fantastico che ho guardato e riguardato e mi dicevo che se avessi potuto ottenere anche solo la metà di quello che ha fatto lui mi sarei ritenuto soddisfatto. Con il mio lavoro ho cercato di fare in modo che lo spettatore non fosse distratto da quello che ritenevo il cuore dell'opera, che è questo scontro di grandi menti che cercano di dar forma al nostro mondo, e volevo sottolinearlo visivamente come potevo, con la scelta delle tre location, con i tre formati che ho usato, 16mm per la prima parte, 35mm per la seconda e digitale per la terza... ci sono tanti modi in cui si può contribuire per rendere cinematografico e personale un lavoro.
Cosa ne pensa dei risultati americani? Perché non c'è stato il riscontro che si immaginava?
In realtà è andato molto bene all'inizio, a New York e Los Angeles e poi quando è stato portato in un'altra trentina di città. Poi è stato diffuso troppo e troppo presto in tutta America come se fosse un blockbuster. Ma non lo è. È un gran film, ma richiede molto impegno, molta attenzione, non ci sono esplosioni, nessuno viene pugnalato. È solo nostra la colpa, abbiamo ampliato troppo la sua diffusione, spinti da un eccesso di sicurezza, mentre saremmo dovuti essere più umili, raggiungendo le persone poco per volta. Le nostre ricerche dicevano che tanti l'avrebbero voluto vedere, ma non ancora. È un film uscito nel corso della Awarsd Season e si sarebbe dovuto comportare come uno dei film che ne fanno parte, crescendo poco per volta, con il passaparola, perché c'è qualità e questo messaggio deve passare da uno spettatore all'altro.
Leggi anche: