"Steve ha la capacità di raccontare una storia per immagini, istintivamente, come nessun altro", racconta Martin Scorsese, uno degli amici storici di Steven Spielberg, suo compagno nel ristretto club dei "movie brats" che rivoluzionarono Hollywood negli anni '70. Quella del regista di Toro scatenato è solo una delle tantissime testimonianze che attraversano Spielberg, il documentario realizzato da Susan Lacy per HBO, due ore e venti di pura delizia per chiunque ami la Settima Arte. Ma è una delle più preziose, perché mette a fuoco la caratteristica più distintiva dell'opera di Spielberg, il suo fuoco sacro, il talento impareggiabile che l'ha reso il regista più famoso del mondo.
Quello di Lacy è un documentario dal taglio essenziale, con la regista sapientemente invisibile, che lascia parlare la straordinarietà dei suoi contenuti e va alla ricerca, attraverso testimonianze e aneddoti, ma anche incredibili sequenze raccolte sui set - dell'essenza del cinema spielberghiano, la matrice di un lunghissimo sogno di musica, luce e parole che ancora oggi, con The Post in arrivo nelle sale, continua a incantarci.
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Un intruso alla Universal
Con contanto soggetto e materiale tanto vario e prodigioso, Lacy ha gioco facile nel construire un'attenta e affascinante esplorazione di una carriera senza paragoni, mostrando tra l'altro la capacità di bilanciare intelligentemente l'indagine della sfera artistica e e di quella personale. Il documentario, infatti, ci conquista immediatemente con il ritratto dello Spielberg adolescente, cinefilo istintivo che durante i fatidici anni trascorsi a Phoenix, Arizona, chiudeva le sorelle nell'armadio per spaventarle e che scovava trovate fantasiose e geniali per arricchire di effetti speciali credibili le sue piccole produzioni amatoriali.
E poi c'è la leggenda della "occupazione" degli studios della Universal. Studente un po' trascurato, Spielberg non riuscì a conquistarsi un posto in una scuola di cinema con le sue stringate sufficienze, ma tradizione vuole che abbia trovato il modo di fare un corso accelerato occupando un ufficio libero negli studi della Universal e visitando set riservatissimi per ben due anni. Lui ammette solo di essere rimasto negli studios una sera dopo la partenza del bus turistico con cui era arrivato; in ogni caso, le sue prove semi-dilettantesche valsero al wunderkind l'interesse si Sid Sheinberg e un contratto di sette anni grazie al quale riuscì a farsi le ossa soprattutto come regista televisivo.
Il resto è storia; da bravi cinefili che sanno il fatto loro, avrete sentito parlare delle traversie sul set de Lo squalo, del mostro marino meccanico che non funzionava, degli spaventosi ritardi ed emorragie di budget che sfociarono, per fortuna di Spielberg, in un successo commerciale senza precedenti che divenne il suo lasciapassare per il futuro; o della rivalsa personale al cuore di Duel, con il protagonista che rappresenta lo Steve ragazzino tormentato dai bulli, e quella scelta un po' sadica, un po' catartica di non fare esplodere il camion/bullo, ma di farlo morire lentamente e soffrendo.
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La riconciliazione con il padre
Ogni visita a quei set leggendari è foriera di spunti interessanti, di confessioni illuminanti e anche, tra le tante lodi di colleghi e star, di qualche stoccata da parte di critici illustri come Todd McCarthy e A.O. Scott, che rilevano i "limiti" del cinema spielberghiano, che poi ne sono, in fondo, il baricentro più umile e umano: il sentimentalismo, l'idealismo, e in qualche caso - come quando ebbe per le mani la scena saffica de Il colore viola o le controversie che circondarono Munich - un po' di pavidità.
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Ma la confessione più toccante arriva dallo stesso regista, che racconta di come le difficoltà nel rapporto con suo padre - considerato (ingiustamente) responsabile della separazione dei genitori - abbiano in qualche modo condizionato le sue scelte in fatto di temi e soggetti: come E.T. L'Extraterrestre avrebbe dovuto essere non un film sulla visita di un alieno, ma la storia di un ragazzino traumatizzato dal divorzio coi genitori, di come in tante altre opere (pensiamo a Indiana Jones e l'ultima crociata e al rapporto tra Indy e Henry Jones) emerga una sensibilità ferita riguardo alla relazione padre-figlio. Se realizzando il suo capolavoro Schindler's List Spielberg si riconciliò con le sue origini ebraiche, girando Salvate il soldato Ryan, dedicato al padre veterano della Seconda Guerra Mondiale, il regista sanò la più profonda delle sue ferite. Coronando una "terapia" artistica che ha coinciso con una delle più straordinarie carriere cinematografiche che l'umanità è destinata a conoscere e ammirare.
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Movieplayer.it
3.5/5