Recensione September Tapes (2004)

Un prodotto difficile,se non impossibile da giudicare con gli usuali strumenti della critica cinematografica, sospeso com'è nella zona liminale e sempre più frequentata del non cinema o del post-cinema se preferite.

Sensibilizzare, documentare o speculare?

Pronto ad animare il dibattito sulla moralità della visione e a far discutere nei nostri salottini televisivi, arriva nelle nostre sale questo docu-fiction (qualcuno ha parlato anche di backstage sulla guerra al terrorismo)sull'Afghanistan post 11 settembre. Sorta di The Blair Witch Project - Il mistero della strega di Blair in salsa war-movie, September Tapes è il primo film non afgano girato in queste terre dopo il conflitto con gli Stati Uniti.

La docu-fiction trama: il documentarista Don Larson (Gorge Calil), animato dalla tragica perdita della moglie nell'attacco al World Trade Center, decide di girare, simbolicamente e realmente, l'Afghanistan, con tutti i rischi che comporta per un americano, insieme ad un camera-man e ad un traduttore: Wali Zarif (Wali Razaqi). L'obiettivo è scoprire la verità sul post 11 settembre e sul perché si sono dimostrati così deboli gli sforzi americani per la cattura di Bin Laden. Per raggiungere il suo scopo parla con veri membri di Al-Queda, rischia di farsi uccidere comprando un Ak-47, si fa sbattere in prigione per contattare Babak: un cacciatore di taglie da lui definito il James Bond arabo. Per seguire questo killer, pronto ad uccidere Bin Laden, finisce insieme ai suoi sventurati compagni nella guerriglia, pronto ad imbracciare il suo fucile e a farsi strada da solo, quando Babak li abbandona alla loro tragica sorte nel cuore dell'Afghanistan meridionale.

Un prodotto difficile, se non impossibile da giudicare con gli usuali strumenti della critica cinematografica, sospeso com'è nella zona liminale e sempre più frequentata del non cinema o del post-cinema se preferite. Estetica e contenuti da documentario avventuroso, contaminato con una fiction azionistica e rambesca, sono le coordinate di questo discutibile e caotico tentativo di raccontare una realtà complessa ed angosciante, utilizzando troppo i mezzi dell'inganno e della sofisticazione, per colpire nel segno. Una sofisticazione furba (molti spettatori avranno serie difficoltà a scindere reale e finzione nel film), ma priva anche di un chiaro e probabilmente necessario punto di vista. Questa sensazione di ammiccamento alla morbosità dello sguardo e di speculazione su un tema così delicato, fortunatamente è stata resa meno invasiva dall'incontro avvenuto qualche giorno fa col giovane regista Christian Johnston, un convincente ed intelligente argomentatore, ben consapevole della non esistenza di una descrittività pura della realtà e delle difficoltà di fare un documentario su tale questioni.

E' solo in virtù di alcune esplicite chiarificazioni, che potrete trovare nell'intervista correlata, che l'orientamento al giudizio verso questo prodotto può farsi più indulgente e riflessivo. Ciò nonostante, se indubbiamente si viene toccati da molte delle sgranatissime immagini del film, l'aspetto della finzione genera ambiguità sull'"urgenza" di ciò che viene mostrato, stemperarndo e artificializzando le sensazioni dello spettatore. La domanda conclusiva è quindi: usciamo arricchiti o disturbati, sensibilizzati o anestetizzati dalla visione di questo film?