Recensione Qualcosa di speciale (2009)

Classico esempio di cinema dei buoni sentimenti, ci troviamo davanti ad una commedia romantica che, nonostante la delicatezza dei toni usati per raccontare la storia d'amore nascente tra i due protagonisti, esamina con una certa superficialità il mondo dei "venditori di felicità", indirizzando con furbizia lo sguardo dello spettatore facile alla lacrima.

Se il predicatore razzola male

Il dottor Burke Ryan è uno che dovrebbe aver capito tutto della vita. La sua filosofia può essere condensata in una frase: se l'esistenza riserva solo limoni, non fare la faccia inacidita, ma preparati una limonata. Dietro a questa metafora poetica si cela in realtà un fantasioso programma di elaborazione del lutto, stilato dallo stesso Burke dopo la morte dell'amata moglie. Quello che lo differenzia dalla gente comune, quindi, è aver trasformato quel dolore in opportunità di successo. "A-ok" è il suo motto, un marchio di fabbrica impresso su libri, dvd e magliette che è anche il mantra ripetuto fino allo stremo nei suoi affollati seminari, riunioni di varia umanità alle prese con la scomparsa di una persona cara. Eppure dietro a questa figura di uomo realizzato si nascondono in realtà le contraddizioni e le paure di chi non ha ancora affrontato la tragedia che gli ha cambiato la vita, limitandosi ad indossare i migliori sorrisi di circostanza prima di andare in scena. Poco importa se quel dispensatore di pacche sulle spalle in grado di camminare sulle braci ardenti non prende più l'ascensore o beve vodka di nascosto. Al terzo anno di vedovanza, però, Burke torna a sentire il richiamo dell'amore. E ha il profumo delle rose di Eloise, una bella e spigolosa fioraia di Seattle che lo prende per mano aiutandolo ad uscire fuori da quel bozzolo.

Qualcosa di speciale segna il debutto alla regia dello sceneggiatore Brandon Camp, già autore dello script di Dragonfly Il segno della libellula, dramma soprannaturale in cui la morte di un coniuge (ancora la moglie) veniva rappresentato nel suo aspetto ultraterreno. In questo caso ci troviamo davanti ad una commedia romantica che esamina con una superficialità sconcertante il mondo dei "venditori di felicità", indirizzando con furbizia lo sguardo dello spettatore facile alla lacrima. Apprezzabile nell'originale descrizione della storia d'amore nascente fra i due protagonisti, il legnoso Aaron Eckhart e la sempreverde Jennifer Aniston, il film diventa banale quando prende di mira bonariamente il rutilante carrozzone dei motivatori professionisti. L'iconografia è assolutamente precisa e ricca di dettagli, ma ad essa non corrisponde una profonda analisi della disperazione di un uomo la cui sagoma di cartone è di gran lunga (e tristemente) più vera della persona che rappresenta. I telepredicatori fanno ormai parte del décor americano quasi come hamburger e patatine fritte. Emanano un aroma di benessere posticcio che nel migliore dei casi infastidisce il pubblico, nel peggiore trasforma i malcapitati in galline dalle uova d'oro. Burke non è una canaglia, un truffatore da quattro soldi, ma semplicemente un uomo disastrato che si confronta quotidianamente con la disperazione della casalinga che impasta i biscotti di uvetta con le ceneri del marito morto (un comportamento ai limiti del TSO) e quella ancor più incomprensibile dell'operaio (il bravissimo John Carroll Lynch) che non riesce a farsi una ragione della scomparsa del figlioletto.

Come il George Clooney di Tra le nuvole anche il personaggio di Eckhart si trova a suo agio preparando con scrupolo la valigia e girando in lungo e largo gli hotel degli Stati Uniti. Lo show si mostra in tutta la sua potenza taumaturgica proprio in una di queste cattedrali a cinque stelle. Tra frasi emblematiche ("La paura è uno stato mentale" oppure "Bisogna esercitarsi con la felicità") e inviti a non mollare mai davanti alle prove della vita, il terapista si mette alla prova tampinando la vitale fioraia, innamorata delle parole strane (il rituale del corteggiamento prevede una lunga scia di termini desueti che la donna scrive sui muri dell'albergo in cui Burke è ospite, con la speranza che l'uomo li scopra e li decifri). Il gioco a rimpiattino fra i due protagonisti è la parte migliore del film, riuscita bene anche grazie alla ricchezza di sfumature del personaggio di Eloise (forse fin troppo sacrificata); tuttavia la crisi dell'uomo che in realtà sta peggio di quelli che dovrebbe "curare" non diventa mai motivo di reale riflessione, anche leggera e divertita. Davanti al crollo dei suoi fittizi ideali ottimistici, caduti sotto i colpi dell'amore vero della donna che lo ha scongelato, Burke rinnega a mezza bocca il suo passato da guru e viene addirittura promosso sul campo dai suoi pazienti e da un colosso editoriale che gli fa firmare il contratto della vita.

Da un film del genere non ci si aspettava certo una sferzante critica sociale a questo consumismo ripulito, ma neanche la totale assenza di critica da parte del regista che non vuole (o non sa) andare oltre la patina della realtà. Nel coro di personaggi minori (buoni gli innesti comici di Judy Greer e Dan Fogler) segnaliamo la sfaccettata interpretazione di Martin Sheen, l'ex marine suocero di Burke che impartisce al genero una severa lezione di vita e regala qualche momento divertente grazie al duetto con un pappagallo appartenuto alla compianta figlia. Resta impressa comunque la bella cartolina di Seattle, la patria del grunge che dietro alla sua facciata di piovosa città del nord ovest racchiude perle nascoste. All'ombra dello Space Needle sono sepolti Bruce Lee e suo figlio Brandon le cui tombe sono una tappa obbligata del tour serale dei protagonisti. E' una delle poche sequenze inaspettate e fuori dalle righe di un film nel complesso prevedibile.

Movieplayer.it

2.0/5