Dopo essere stato presentato al Festival Internazionale del Film di Roma 2013, nella sezione Alice nella città, il 18 settembre uscirà finalmente nelle sale Se chiudo gli occhi non sono più qui, un delicato racconto di formazione scritto e diretto da Vittorio Moroni. Il film, che racconta la difficile adolescenza del sedicenne Kiko fra problemi familiari e un lavoro clandestino, sarà presentato in anteprima questa sera alle 20,30 a Mercogliano, nell'ambito del Festival Laceno d'Oro; la proiezione sarà seguita da un incontro fra Moroni e il pubblico.
Se chiudo gli occhi non sono più qui segna il ritorno di Vittorio Moroni al cinema di finizione a nove anni di distanza dal suo primo lungometraggio, Tu devi essere il lupo, che nel 2006 gli era valso la nomination al David di Donatello come miglior regista esordiente. Nel frattempo Moroni ha realizzato due documentari, Le ferie di Licu ed Eva e Adamo, ed ha firmato le sceneggiature dei film Terraferma di Emanuele Crialese e Razzabastarda di Alessandro Gassman. Aspettando l'arrivo al cinema di Se chiudo gli occhi non sono più qui abbiamo parlato con Vittorio Moroni, che ci ha raccontato la sua esperienza sul set della pellicola, che vede protagonista il giovanissimo esordiente Mark Manaloto accanto a Beppe Fiorello e Giorgio Colangeli.
Vittorio, com'è nata l'idea alla base del film e in che modo l'hai sviluppata?
Il progetto ha avuto inizio diversi anni fa: già dopo il mio primo film, Tu volevi essere il lupo, ero intenzionato a tornare a trattare il tema dell'adolescenza. Anche per mie ragioni personali sentivo di avere ancora qualcosa di irrisolto con quella stagione della vita, che talvolta continua a "chiamarmi". Io però non sono più adolescente da almeno venticinque anni, e pertanto avevo bisogno di confrontarmi con chi vive quell'età oggi. Ciò di cui volevo occuparmi, in particolare, era la conoscenza, ovvero la scintilla che può accendersi grazie all'incontro con certe letture che influiscono sul nostro destino. Ho chiesto a un insegnante di un liceo di Roma di potermi sedere fra i banchi per un mese, per osservare la vita in classe: nel corso di tale esperienza ho avuto modo di intervistare tutti gli alunni e gli insegnanti di tre classi, e ho cercato di capire quale rapporto avessero i ragazzi con il proprio futuro, e quanto questo futuro potesse essere determinato dalla vita scolastica. Da allora ho cominciato a mettere mano al soggetto, che ha avuto la fortuna di ricevere una borsa di sviluppo al premio Solinas; questo è stato un bell'incoraggiamento. Da allora, il lavoro prima che il film fosse completato è durato quattro anni.
Nei tuoi film da regista e da sceneggiatore ritornano di frequente i temi dell'immigrazione e dell'integrazione: in che modo il tuo approccio a questi temi è cambiato in Se chiudo gli occhi non sono più qui rispetto al passato?
Uno dei nuclei del film è la multiculturalità, un tema fondamentale per il semplice fatto che il nostro paese sta attraversando grandi cambiamenti sull'onda di questa spinta multiculturale. Rispetto all'Italia di vent'anni fa, l'Italia di oggi presenta moltissime differenze, in buona parte proprio per tale incontro fra culture diverse. Se chiudo gli occhi non sono più qui, però, non è prettamente un film sull'immigrazione: ho scelto di trattare Kiko come se fosse un ragazzo italiano, è un personaggio caratterizzato dallo stesso senso di smarrimento che affligge tanti adolescenti italiani. Ma Kiko conserva anche un intenso legame con la sua memoria familiare, e questo emerge da alcune sue scelte, come quando decide di andare alla ricerca delle proprie origini. Mi piaceva l'idea di parlare dell'immigrazione in maniera diversa rispetto a come se ne parlava dieci anni fa: la sorpresa di doverci confrontare con altre culture è stata sostituita ora dalla necessità di affrontare questioni nuove, magari più sottili ma anche più avvincenti.
Quali sono state le tue fonti d'ispirazione nel costruire il personaggio di Kiko e la vicenda da lui vissuta nel film?
La cosa che più mi ha aiutato è stato l'incontro con moltissimi ragazzi filippini durante il casting. È stato un casting un po' anomalo: ho parlato a lungo con ciascuno di loro, in media per circa un'ora. Per me è stata una grande, incredibile occasione di arricchimento e di conoscenza, e dopo ogni giornata di casting avevo bisogno di due giorni per rimettere mano alla sceneggiatura in base a quanto avevo appreso. Ad esempio, ho scoperto che molti filippini affidano i figli ai loro nonni per potersi poi trasferire in Italia, e agli occhi dei figli diventano persone semi-sconosciute che spediscono soldi da un paese lontano. In seguito, verso i nove, dieci anni, questi bambini vengono mandati in Italia a raggiungerli, subendo così un doppio shock: dover abbandonare i nonni, ovvero i loro punti di riferimento, e trovarsi a convivere per la prima volta con i propri genitori. La condizione di orfano è uno dei tratti fodamentali di Kiko, ma ho capito che questo tipo di vissuto di tanti ragazzi filippini è molto simile alla condizione di un orfano. La pratica quasi "documentaristica" di ascoltare le persone è stata quindi una componente decisiva nella genesi e nello sviluppo del film.
Come mai, dopo la lunga parentesi documentaristica, hai scelto di tornare al cinema di finzione, e qual è il tuo modo di gestire questi due linguaggi?
Dal punto di vista formale, volevo appunto far incrociare le mie due strade professionali: il cinema di finzione e le docu-fiction, ovvero pellicole contaminate dall'esperienza documentaristica. Con Se chiudo gli occhi non sono più qui avevo voglia di realizzare un film che avesse un percorso drammaturgico ben definito, ma che al tempo stesso godesse della "libertà" di un documentario. In realtà, sia per i documentari che per il cinema di finzione ho il medesimo approccio, per me è difficile stabilire un confine. L'elemento fondamentale a mio avviso resta il rapporto fra il narratore e la storia: penso che tutto si giochi sempre sullo sguardo, uno sguardo insieme vero e falso. I film, anche quando sono basati su vicende reali, hanno comunque i connotati di una favola. Se però si pensa a tutto il lavoro di montaggio e di selezione di materiali, nonché al condizionamento insito nello sguardo narrativo, ci si rende conto che la finzione fa parte di ogni racconto... la prospettiva di chi racconta prevale sempre sulla storia in sé.
In questo senso, ti sei avvalso anche del contributo dell'improvvisazione degli attori o hai apportato modifiche alla sceneggiatura?
Io e Marco Piccarreda avevamo preparato una sceneggiatura "tradizionale", frutto di varie versioni riscritte e perfezionate, ma la condizione principale era che, sul set, per ogni scena scattasse una scintilla che restituisse la verità degli attori rispetto a quanto avveniva davanti alla cinepresa. A volte la scena prendeva una strada diversa da quella indicata nel copione, e allora l'improvvisazione diventava l'elemento guida. Del resto, non credo che una sceneggiatura sia come un romanzo: è piuttosto una mappa che consente agli attori di non smarrirsi, ma mi aspetto che il loro viaggio tradisca in qualche modo il percorso originale.
Nella direzione degli attori, quali indicazioni hai dato al protagonista, l'esordiente Mark Manaloto?
Mark è stato molto bravo, fra l'altro è appena stato ingaggiato per una parte nel nuovo film dei registi di Boris. Con lui e con Hazel Morillo, l'interprete della madre di Kiko, Marilou, entrambi esordienti, abbiamo svolto un training di cinque mesi, durante il quale sono stati addestrati a non fare nulla che non sentissero "vero". Il loro compito era quello di mettere a cofronto ogni scena con la loro vita, facendo in modo che dalla propria esperienza scaturisse quel senso di verità in grado di far "respirare" la scena.
Per quanto riguarda invece gli attori professionisti?
Sono molto soddisfatto di tutte le interpretazioni. È molto diverso lavorare con attori professionisti o agli esordi. Con i non professionisti, cerco interpreti che siano già molto vicini ai personaggi; con i professionisti invece accade il contrario, e infatti è stato divertente chiedere a Giuseppe Fiorello di calarsi in un ruolo quasi da "cattivo", una figura agli antipodi rispetto a quelli a cui ci ha abituato in televisione, e lui ha accettato la scommessa. Con Giorgio Colangeli c'era bisogno che il suo personaggio, Ettore, sviluppasse un senso di mistero e un forte carisma, e Giorgio è stato bravissimo, giocando sui toni del "popolano" ma al contempo mostrandosi capace di parlare di astronomia e filosofia. Giorgio è imprevedibile, e sul set è stato un enorme punto di riferimento per Mark: non si è mai arroccato sulla posizione dell'attore veterano, ma si è dimostrato umile e generoso. C'era un'atmosfera da vero lavoro di squadra, in cui tutti si sono impegnati al massimo. L'operatore Andrea Caccia e il fonico Luca Bertolini hanno capito appieno lo spirito del film, e hanno conferito alle riprese quell'attenzione, ma anche quella "freschezza" tipica del documentario.
Cosa puoi dirci infine sui tuoi prossimi progetti?
In questo momento mi sto concentrando molto sulla scrittura; sto cercando di selezionare un progetto per far partire un nuovo film, ma ancora non ho preso una decisione definitiva. Nel frattempo sto collaborando anche con Emanuele Crialese alla sceneggiatura del suo prossimo film da regista.