Recensione Le crociate (2005)

Non mancano le caratteristiche necessarie per realizzare un filmone epico al passo con i tempi, ma la sceneggiatura debole e interpretazioni poco convincenti ne fanno uno spettacolo poco entusiasmante e spesso noioso.

Salvate il crociato Bloom

Un grande successo su scala mondiale come Il gladiatore o un flop di quelli che si ricordano come Alexander?
Le crociate sembra in realtà essere figlio diretto del pluripremiato film del 2000 sia perché ne condivide il regista, Sir Ridley Scott, e parte del cast tecnico, ma anche perché gli si avvicina nella concezione, molto hollywoodiana, che la Storia non è altro che un canovaccio su cui ricamare eroiche prodezze tanto affascinanti quanto surreali.
Sappiamo quindi che non è in base alla aderenza storica che dobbiamo giudicare la sceneggiatura scritta dall'esordiente William Monahan, così come risulta chiaro dopo la visione del film che anche i tanto chiacchierati temi scottanti (quali la tolleranza tra popoli di diverse culture e religioni - che lo stesso Scott definisce tema centrale della sua opera - o i riferimenti alla situazione palestinese) non sono altro che un aspetto assolutamente marginale di una pellicola il cui unico scopo è quello di divertire ed intrattenere un pubblico il più vasto e variegato possibile.

E c'è da dire che, a questo scopo, l'impegno produttivo non manca, così come non mancano tutte le caratteristiche necessarie per il realizzare un filmone epico al passo con i tempi: scenografie imponenti, uno straordinario uso di effetti speciali e comparse, costumi realistici e perfino una battaglia, o meglio un assedio, che vorrebbe far dimenticare quella de Il signore degli anelli - Il ritorno del re, ma che piuttosto finisce con il ricordarla anche troppo. Tecnicamente insomma il film non è certo da buttare, anzi, Scott è sempre straordinario nello gestire le risorse a disposizione e a dirigere scene di massa sempre più impressionanti; il problema è che mentre Il gladiatore, seppur con diversi limiti, riusciva ad avvincere e ad appassionare e soprattutto a nascondere il più possibile le notevoli incertezze narrative, lo stesso non avviene in questo Kingdom of Heaven.

Com'è possibile tutto ciò se i presupposti sono gli stessi, se perfino il regista è lo stesso? La risposta a questa domanda va ricercata in due aspetti fondamentali, legati indissolubilmente, ovvero sceneggiatura ed interpretazione. Lo script di Monahan è evidentemente uno dei punti deboli nel film, non tanto, come dicevamo, per la scarsa accuratezza storica o per le libertà concessesi (elemento, per esempio, che ha attirato sulla sceneggiatura di Troy critiche ancora più feroci di quanto già meritasse) ma per la debole rappresentazione dei personaggi, delle loro motivazioni, e per il senso di scarso interesse, se non addirittura noia, che essi producono. Viene da sé che anche le interpretazioni risentono di questo problema e se, almeno in parte e almeno occasionalmente, sono risollevate dalla bravura di attori di grande talento quali Liam Neeson, Jeremy Irons o David Thewlis, in altri casi (come per il macchiettistico personaggio interpretato da Brendan Gleeson) la presenza scenica non è altrettanto forte da far perdonare la sciatteria.

Un discorso a parte meritano i due giovani protagonisti: Eva Green è ovviamente splendida e regale e la parte assegnata, pur presentando alcune ovvietà, non è tale da far sbiadire il suo fascino; altrettanto non possiamo dire per Orlando Bloom, nuovo idolo dei giovanissimi grazie agli incassi straordinari ottenuti con la trilogia Il signore degli anelli o La maledizione della prima luna: rispetto ai precedenti successi c'è innanzitutto da dire che qui Bloom, per la prima volta in una produzione di queste dimensioni, è il protagonista indiscusso, e sebbene coadiuvato da un cast di fama internazionale (oltre ai già citati c'è anche Edward Norton che interpreta il Re lebbroso di Gerusalemme, Balduino IV), si trova per gran parte della durata del film a portare avanti il film sulle sue spalle. E i risultati sono davvero miseri, perché svestite le spoglie dell'immortale elfo Legolas, senza una spalla della caratura di Johnny Depp, Bloom al massimo sembra avere volontà, gioventù e bellezza dalla sua, ma ha carenze troppo evidenti in fatto di esperienza e carisma per poter far sì che una sceneggiatura simile si regga sul suo personaggio, sulle sue espressioni costantemente spaesate, sulla sua dizione poco incisiva. Sarà un caso che il Balian da lui interpretato alla fine della pellicola decida di smettere i panni del valoroso eroe per tornare a dedicarsi al mestiere di fabbro?

Movieplayer.it

2.0/5