Tra i cinque film a marchio Star Wars usciti negli ultimi cinque anni, da quando la Lucasfilm ha iniziato la sua avventura sotto l'egida Disney, non c'è dubbio che Rogue One occupi un posto d'onore particolare. È un risultato sorprendente perché quando fu annunciato il progetto - ora abbandonato - degli spin-off chiamato Star Wars Stories si pensava unicamente alla natura commerciale del prodotto, film da alternane alla saga principale sugli Skywalker solo per il gusto di fare cassa. Oggi, a fronte di un flop al botteghino (quel Solo che ha sancito la fine dell'esperimento relegando le idee previste alla piattaforma streaming Disney+ sotto forma di serie) e alla conclusione di una trilogia sequel parecchio discussa e divisiva, Rogue One si staglia come il film che ha messo d'accordo tutti i fan: epico, tragico, diverso eppure familiare, la storia del sacrificio di Jyn Erso che si collega agli eventi del primissimo Guerre Stellari (quello diventato poi Episodio IV) ha fatto breccia nel cuore di ogni appassionato. Merito di un finale inaspettato che è riuscito a condensare in pochi minuti tutta la poetica della saga, ma anche di un film che ha saputo giocare con le icone e rappresentarle attraverso un punto di vista inedito. Torniamo nella galassia lontana lontana con la nostra analisi del finale del film.
L'ascesa di Jyn Erso
A prima vista è un film squilibrato, questo Rogue One. Personaggi poco memorabili, ritmo altalenante, i muscoli che vengono mostrati solamente durante il terzo atto quando, durante la lunga battaglia su Scarif, si riconosce al meglio lo stile della saga. Eppure, a ben vedere, è un film assolutamente riuscito nel raccontare due storie: il furto dei dati relativi alla Morte Nera e il sacrificio della protagonista Jyn Erso (Felicity Jones). Personaggio silenzioso e solitario, la vita di Jyn si è svolta sempre nell'ombra essendo cresciuta, alla morte della madre e col padre costretto a lavorare per l'Impero, insieme a Saw Gerrera (Forest Whitaker), il capo di un gruppo di ribelli estremisti. Ed è proprio nascondersi la prima azione che compie nel prologo del film, poco prima della comparsa del titolo sullo schermo. Per sfuggire alla cattura, la bambina si nasconde in una buca sottoterra, nel buio, illuminata solo da una fioca luce, sarà poi Saw ad aprire la botola invitandola ad uscire. Uscire dal rifugio sotterraneo vuol dire risalire, e tutto il film racconterà la scalata di Jyn: dal punto più basso al punto più alto, dal pensare a sé stessa al dare sé stessa. Gli ambienti del film, infatti, insieme al ritmo sempre più frenetico, accentuano questa scalata.
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I 3 scalini
Tre atti, tre ambienti principali, che corrispondono anche alla presa di coscienza di Jyn, tre scalini verso l'alto. Il primo è il pianeta Jedha, la terra, dove Jyn vedrà il messaggio di suo padre Galen (Mads Mikkelsen) che metterà i ribelli a conoscenza di un punto debole all'interno della struttura della Morte Nera che ha costruito. È in quest'occasione che Jyn scopre la verità su suo padre, obiettivo del gruppo di ribelli capitanati da Cassian (Diego Luna): non un traditore fedele all'Impero, ma un uomo d'onore che in segreto non ha mai smesso di amare la figlia. Secondo atto, secondo pianeta. Trattasi di Eadu, la montagna, il pianeta dove si trova il centro di ricerca imperiale e dove, dopo un attacco da parte dei ribelli, Galen perderà la vita, non prima di un ultimo straziante dialogo chiarificatore con la figlia. È il momento di svolta per Jyn che esce finalmente dall'ombra e decide, anche a costo di andare contro le direttive del capo dei ribelli Mon Mothma, di andare su Scarif a rubare i piani della Morte Nera. Arriviamo così al terzo scalino, Scarif, il cielo, dove lo showdown finale si svolgerà in cima a una torre di trasmissione. Un'ascensione che porta Jyn dall'ombra alla luce, dall'essere sottoterra chiusa da una botola a stare su una torre e trasmettere nell'etere il suo messaggio, dalla disillusione alla speranza, dal pensare unicamente a sé stessa al sacrificio per l'intera galassia.
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Pianeta Melancholia
Fulcro di Rogue One è la Morte Nera, la super-arma imperiale che già conosciamo e che abbiamo già visto all'opera nel primo film di Star Wars. Non solo è l'arma a cui Galen Erso sta lavorando, non solo è il progetto i cui piani vanno rubati e ritrasmessi all'Alleanza Ribelle, ma è anche il simbolo della fine di tutte le cose, una luna che si staglia in cielo e che preannuncia la morte. In questo ci torna in mente un film diversissimo e quanto più distante dal cinema d'intrattenimento a cui appartiene Star Wars, ovvero Melancholia di Lars Von Trier, film del 2011 premiato al Festival di Cannes. Melancholia, nel film omonimo, è il nome di un pianeta che sta per scontrarsi con la Terra e nel farlo la distruggerà: le due ore del film seguono Justine e sua sorella Claire che, lentamente, iniziano ad accettare il triste destino guardando Melancholia avvicinarsi sempre di più a loro fino all'inevitabile distruzione della Terra. In Rogue One, che è girato da un punto di vista "umano" e "dal basso" rispetto agli altri film di Star Wars (dove il narratore è onnisciente e c'è uno sguardo totalmente esterno) e in cui la camera a mano dona una patina più bellicosa e realistica al tutto, la Morte Nera è esattamente il simbolo della morte imminente a cui nessuno può sfuggire, una sorta di divinità visibile la cui presenza non può essere evitata. Simbolo della fine della speranza (e il titolo dell'Episodio IV, Una nuova speranza, acquista dopo la visione di Rogue One tutto un altro sapore), irraggiungibile e indistruttibile, la Morte Nera fa veramente paura. Ecco perché il sacrificio di Jyn e dei ribelli ha il sapore dell'epica, delle persone comuni che sfidano la natura maligna per un domani migliore. Nel momento in cui Jyn e Cassian muoiono abbracciati, come colpiti dal fungo atomico di un'esplosione nucleare, sembra di vedere una delle immagini più significative di Watchmen, il fumetto di Alan Moore e Dave Gibbons, che si conclude con la citazione di una canzone di John Cale: "E sarà un mondo più forte, più forte d'amore in cui morire".
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Polvere di stelle
Un finale tragico che corrisponde al soprannome con cui Galen chiamava Jyn, Stardust (in italiano "Stellina"), e che corrisponde al nome in codice per i piani della Morte Nera. L'ascensione di Jyn diventa, alla fine, ultraterrena: morendo nell'esplosione di Scarif diventa un simbolo di ispirazione per i ribelli sopravvissuti, diventa polvere (fisicamente) ma anche speranza (la luce delle stelle, ricordiamo il significato dei soli su Tatooine per Luke, Anakin e Rey nel corso della saga) in una forma talmente piccola da non poter essere più sconfitta. Come la polvere si posa indistintamente e inesorabilmente sugli oggetti, così il lascito di Jyn è un coraggio e una forza di speranza che si posa sugli uomini e le donne della galassia, gli stessi che poco prima le avevano impedito di agire. Gli ultimi minuti del film esaltano proprio questo: una catena umana che si sacrifica passandosi di mano in mano questa speranza sotto forma di polvere di stelle (questo è il nome del file dei dati) come fosse un testimone per il futuro, un invito alla vita. Anche se, a prima vista, può sembrare estremamente tragico, il finale corrisponde al messaggio che da sempre caratterizza Star Wars e i loro eroi: l'altruismo, l'unione, la speranza, il tentativo di migliorare il mondo e fare del bene, l'andare oltre le differenze di razza, specie, età e poter smettere di aver paura della morte che, come la stazione spaziale, è lì, in attesa. Non è l'omologazione a vincere (i soldati imperiali non si distinguono indossando un casco che copre loro il volto, gli imperiali stessi sono vestiti tutti uguali), ma l'essere diversi.