Non c'è nessuno come lui. Si può imitarlo o esserne influenzati, ma è impossibile da raggiungere o da ingabbiare. Altman è imprevedibile e segue un fiume tutto suo.
"Per me girare un film equivale a fare castelli di sabbia. Si va in spiaggia con un gruppetto di amici e si costruisce un grande castello di sabbia. Quando è finito ci si mette seduti a bere una birra aspettando l'arrivo delle onde. Dopo venti minuti quello che rimane è solo la sabbia. La struttura che si era costruita è rimasta solo nella testa della gente. Mentre tutti si avviano verso casa, qualcuno dice: 'Sabato prossimo torniamo a costruirne un altro?'".
La citazione in apertura appartiene al regista che probabilmente più di qualunque altro ha saputo assorbire la lezione di Robert Altman, suo "nume tutelare", rielaborandola fino a farla propria: Paul Thomas Anderson, in cui l'influenza di Altman appare in maniera cristallina in film come Boogie Nights e Magnolia (ma in parte anche nel più recente Vizio di forma). La metafora dei castelli di sabbia, invece, tratta dallo splendido libro intervista Altman racconta Altman di David Thompson (e non a caso la casa di produzione di Altman si chiamava Sandcastle), è stata adoperata dal cineasta di Kansas City per esprimere il proprio approccio al lavoro sul set: la sua natura di imprevedibilità, ma anche l'intrinseco divertimento quasi infantile e l'atmosfera da "lavoro di gruppo".
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I "castelli di sabbia" di un cineasta rivoluzionario
La sua concezione delle riprese come una sorta di gioioso happening aperto ad amici vecchi e nuovi ci è stata confermata anche da uno dei suoi più frequenti collaboratori, l'attore Michael Murphy, quando l'abbiamo incontrato al Festival di Venezia 2014 per la presentazione del documentario Altman di Ron Mann. E in fondo, per chi conosce bene il suo cinema, non può essere certo una sorpresa: perché nei film di Robert Altman si respirano invariabilmente la spontaneità e la naturalezza tipiche delle "opere aperte". Aperte a cosa? A qualunque cosa accada al di fuori delle convenzioni e delle regole; alle contraddizioni e alle bizzarrie dell'esistenza, catturata dalla cinepresa di Altman nel suo divenire quotidiano; a quelle incognite inaspettate che possono materializzarsi sotto le più svariate forme, perfino nello scontro in autostrada fra un divano e una barca.
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E Altman, autore di punta nella New Hollywood degli anni Settanta, ma capace egli stesso di rinnovarsi e rimettersi in gioco di film in film, ha avuto il merito di riscrivere molte di quelle regole che aveva contribuito ad abbattere e di mutare la concezione stessa del cinema. Nessuno come Altman, ad esempio, ha saputo espandere e mettere alla prova la struttura del racconto corale, senza mai scivolare in schemi programmatici; e nessuno, prima di lui, aveva applicato un'iniezione di realismo ai codici hollywoodiani con un'idea tanto semplice quanto rivoluzionaria come l'overlapping, ovvero le sovrapposizioni delle voci durante i dialoghi. Ma soprattutto, Altman è il regista che, forse più e meglio di tutti i propri contemporanei, ha saputo tracciare un immenso affresco dell'America coeva, della sua società e della sua cultura, esplorandone i lati oscuri con dissacrante lucidità, ma senza ombra di moralismi.
Il ritratto di una nazione, o piuttosto di un'epoca (perché non c'è solo l'America, nei film di Altman, ma pure una buona fetta di Europa), elaborato però attraverso le storie di singoli individui. Personaggi comuni, fragili, imperfetti, o in casi più rari personaggi iconici dipinti sotto un nuovo punto di vista, mediante una luce inedita: il detective Philip Marlowe de Il lungo addio, il Buffalo Bill cialtrone e opportunista di Paul Newman in Buffalo Bill e gli indiani (Orso d'Oro al Festival di Berlino 1976: un attacco frontale al mito americano nel pieno del bicentenario degli Stati Uniti), il Braccio di Ferro di Robin Williams nel musical disneyano Popeye, e ancora il dolente Richard Nixon del monologo Secret Honor e il Vincent van Gogh di Vincent & Theo.
Un'eredità straordinaria, quella di Altman, in cui è meraviglioso tornare a immergersi: perché i suoi film sono talmente densi, ricchi, stratificati, e - non dimentichiamolo - gioiosamente liberi, che a ogni visione si rivelano capaci di attirare il nostro sguardo su un diverso particolare, di offrirci spunti di cui non ci eravamo ancora accorti e di regalarci qualcosa di nuovo.
Robert Altman ci lasciava il 20 novembre 2006, all'età di ottantun anni, otto mesi dopo aver ricevuto il premio Oscar alla carriera (e il suo discorso di ringraziamento, preceduto dall'esilarante presentazione di Meryl Streep e Lily Tomlin, va annoverato fra i momenti più toccanti negli annali dell'Academy). Oggi, a dieci anni esatti dalla sua scomparsa, vogliamo celebrare questo indimenticabile artista ripercorrendo dieci tappe fondamentali (ma ce ne sarebbero moltissime altre) del suo cinema multiforme, anarchico e incredibilmente vitale.
1. MASH (1970)
In un ospedale militare da campo dell'esercito statunitense, nel corso della Guerra di Corea, tre ufficiali del personale medico, Falco Pierce, Razzo John McIntyre e Duke Forrest, sfidano l'autoritarismo del Maggiore Frank Burns e la disciplina del codice militare trascorrendo il proprio tempo tra beffe e scherzi di ogni tipo. Dopo la lunga (e travagliata) gavetta televisiva, cominciata nel 1957 alla corte di Alfred Hitchcock, e il ritorno al cinema con Conto alla rovescia (un progetto su commissione) e il più originale Quel freddo giorno nel parco, ecco la prima pietra miliare nella carriera di Robert Altman, canonizzata immediatamente dalla vittoria della Palma d'Oro come miglior film al Festival di Cannes 1970, del premio Oscar per la sceneggiatura di Ring Lardner Jr e dal Golden Globe come miglior commedia. Accolto da un gigantesco successo di pubblico, MASH (acronimo di Mobile Army Surgical Hospital) racconta la guerra secondo i codici una farsa goliardica, spingendosi laddove Hollywood non aveva mai osato. L'umorismo nerissimo è rimarcato fin dalla canzone d'apertura, la celeberrima Suicide Is Painless, in un'opera dal caustico spirito antimilitarista uscita nel pieno del conflitto in Vietnam.
2. I compari (1971)
Nello Stato di Washington, all'inizio del ventesimo secolo, il pistolero John McCabe giunge nella comunità montana di Presbiterian Church, un piccolo centro di minatori, con il proposito di aprire una casa di tolleranza; ad associarsi a McCabe sarà Constance Miller, intraprendente prostituta inglese con una determinazione di ferro e uno spiccato senso degli affari. Adattando un romanzo di Edmund Naughton, Robert Altman realizza un western assolutamente anomalo che sembra voler contraddire tutte le convenzioni del genere, accompagnato dalle malinconiche ballate di Leonard Cohen e connotato dalla superba fotografia di Vilmos Zsigmond. Warren Beatty e Julie Christie prestano il volto a questa coppia di antieroi, alfieri di un'America in cui la fiducia nella libera impresa e nelle potenzialità dell'individuo finirà per naufragare contro gli interessi dei colossi dell'economia. Meraviglioso e struggente il finale nella neve sulle note di Winter Lady.
3. Il lungo addio (1973)
Se I compari aderiva ai codici del western per demolirli dall'interno, due anni più tardi Il lungo addio, trasposizione dell'omonimo romanzo di Raymond Chandler, sancisce invece la decostruzione di un altro genere tipico della Hollywood classica, il noir degli anni Quaranta, qui riletto in chiave crepuscolare e adattato perfettamente allo "spirito dei tempi". Uno scanzonato Elliot Gould, fra i grandi interpreti altmaniani, presta il volto a un Philip Marlowe 'stropicciato' e solitario, che di notte si aggira in cerca di cibo per il suo gatto, mentre indaga sulla sparizione dello scrittore alcolizzato Roger Wade per conto della moglie Eileen. Un poliziesco ironico ma anche dolentissimo, capace di riproporre un'icona dell'immaginario noir rovesciandone però la dimensione mitica, fino a farne emergere l'umana fragilità nella cornice del sordido e notturno microcosmo losangelino.
4. Nashville (1975)
"You may say that I ain't free but it don't worry me", canta la sbandata Albuquerque di Barbara Harris nell'agghiacciante finale di Nashville, magnum opus di Robert Altman e vertice insuperato dell'intero decennio della New Hollywood. Un capolavoro seminale e irrinunciabile, che abbiamo già avuto occasione di approfondire in occasione del suo quarantennale e che continua ancora oggi a raccontarci tantissimo sulla società americana (e non solo). Le cinque giornate del più importante festival della musica country, nella capitale del Tennessee e in prossimità del bicentenario degli Stati Uniti, sono portate in scena attraverso i percorsi intrecciati di ventiquattro personaggi, fra sogni di gloria, piccole miserie quotidiane e momenti di ordinaria follia che compongono il ritratto di un paese, di una cultura e di un'epoca. Puntualmente ai primi posti nelle classifiche dei migliori film di tutti i tempi, Nashville ci propone uno straordinario affresco corale in cui la dimensione politica, quella collettiva e quella privata si sovrappongono costantemente: il "canto funebre" (a ritmo country) del Sogno Americano.
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5. Tre donne (1977)
In una sperduta cittadina termale nel deserto californiano, la giovane e taciturna Pinky Rose comincia a lavorare in un centro di benessere, dove ben presto si lascia ammaliare dal carattere estroverso e dall'ostentata sicurezza della collega Millie Lammoreaux, ragazza loquace che la convince a diventare sua coinquilina. Ma mentre Millie continua a restare ingabbiata nelle proprie illusioni, la timidissima Pinky subisce una repentina trasformazione, ribaltando i rapporti di forza fra le due amiche. In una California desolata e fantasmatica, Robert Altman firma un suggestivo dramma psicologico dai risvolti onirici, che può essere considerato l'ideale anello di congiunzione fra Persona di Ingmar Bergman e Mulholland Drive di David Lynch. Bizzarro, ipnotico e fascinosissimo, Tre donne ci consegna anche un formidabile duetto recitativo fra Shelley Duvall, premiata come miglior attrice al Festival di Cannes 1977, e una Sissy Spacek almeno altrettanto brava.
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6. Jimmy Dean, Jimmy Dean (1982)
Il 30 settembre 1975, ventennale della morte di James Dean, nella cittadina di McCarthy, in Texas, un piccolo gruppo di ex amiche, fan dello sfortunato divo, si riuniscono nell'emporio di una di loro, Juanita, per rievocare i ricordi della propria giovinezza; il loro incontro si trasformerà però in un progressivo gioco al massacro, fra dolorosi rimpianti e scheletri nell'armadio, alimentato dall'arrivo di una donna misteriosa di nome Joanne. Subito dopo la mega-produzione di Popeye per la Disney, Robert Altman si allontana dalla "Hollywood che conta" per dedicarsi alla trasposizione di pièce teatrali per il cinema: nell'arco di appena cinque anni realizzerà infatti l'ottimo Streamers, Secret Honor, Follia d'amore e Terapia di gruppo. Ad inaugurare questa fase della sua carriera è però il titolo migliore del lotto, Jimmy Dean, Jimmy Dean, che lo stesso Altman aveva già portato in palcoscenico con il medesimo cast. Definito dal regista come una tragedia greca sottoforma di soap opera, Jimmy Dean, Jimmy Dean è un altro eccezionale dramma al femminile, messo in scena come un gioco di specchi fra passato e presente e servito da un magnifico gruppo di attrici (su tutte Karen Black, Cher e Sandy Dennis).
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7. I protagonisti (1992)
Griffin Mill, rampante produttore esecutivo di un importante studio di Hollywood, inizia a ricevere delle cartoline contenenti messaggi minatori. Indagando fra gli sceneggiatori a cui aveva respinto dei copioni, Griffin si mette sulle tracce di David Kahane, uno scrittore spiantato e in preda a una rabbiosa frustrazione: ma il confronto fra i due uomini avrà conseguenze inaspettate, ponendo Griffin in una situazione di serio pericolo. A un decennio dal proprio 'esilio' da Hollywood, Robert Altman ritorna in grande stile con la trasposizione di un romanzo di Michael Tolkin, prendendosi una sopraffina vendetta. Condito dalle apparizioni di oltre sessanta celebrità hollywoodiane nel ruolo di se stesse, I protagonisti è un "metafilm" che sfugge a ogni definizione: un thriller che si rovescia nella satira, in cui la tagliente descrizione dei meccanismi dell'industria dello spettacolo è accompagnata da un umorismo nerissimo e irresistibile. Accoglienza trionfale di critica e di pubblico, coronata dalla vittoria di due Golden Globe e dei premi per la miglior regia e per l'attore protagonista Tim Robbins al Festival di Cannes 1992.
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8. America oggi (1993)
Mentre un nugolo di elicotteri sorvola Los Angeles per cospargere la metropoli di un potente insetticida allo scopo di debellare la piaga (biblica?) delle mosche della frutta, che rischiano di distruggere la produzione agricola, nella città degli angeli le esistenze intrecciate di ventidue personaggi procedono verso un inevitabile "punto di rottura". Ad appena un anno di distanza da I protagonisti, un Robert Altman di nuovo sulla cresta dell'onda mette a segno un altro capolavoro, adattando per il grande schermo nove racconti e una poesia del grande Raymond Carver. Ricompensato con il Leone d'Oro come miglior film al Festival di Venezia 1993, America oggi non è solo uno dei più complessi e inquietanti ritratti dell'America contemporanea, ma anche una delle vette più alte del cinema di fine millennio. Tragico e lieve, grottesco e lancinante, ironico e apocalittico: un coacervo di contraddizioni, come la nazione che rappresenta, ma senza escludere un sottile spiraglio di speranza.
9. Gosford Park (2001)
Nell'Inghilterra del 1932, l'aristocratico Sir William McCordle e sua moglie Lady Sylvia accolgono un nutrito gruppo di parenti e amici, più o meno altolocati, nella loro lussuosa residenza di campagna, per un fine settimana all'insegna della caccia, delle relazioni sociali, del gossip e delle scappatelle. Ma la serenità soltanto apparente della sofisticata compagnia si incrinerà definitivamente quando il padrone di casa viene assassinato: tutti sono potenziali sospettati, ma chi è il colpevole? A settantasei anni d'età, Robert Altman ci sorprende ancora una volta cimentandosi con un genere, il tipico murder mustery alla Agatha Christie, a prima vista ben lontano dalla propria poetica, ma rivisitato secondo i canoni di un gigantesco film corale imperniato sul confronto/scontro fra le diverse classi sociali (la compresenza dei nobili e della servitù). Kristin Scott Thomas, Maggie Smith, Helen Mirren e Michael Gambon sono solo alcuni dei magistrali interpreti di un giallo costruito come un'altra, graffiante "commedia umana", in cui si adombra però anche al tramonto di un'epoca. Uno dei maggiori successi nell'intera carriera di Altman, vincitore del Golden Globe per la miglior regia e del premio Oscar per la sceneggiatura di Julian Fellowes.
10. Radio America (2006)
In una stazione radiofonica del Minnesota, la storica (e reale) trasmissione A Prairie Home Companion, condotta dal presentatore Garrison Keillor (nella parte di se stesso), si prepara a mandare in onda la sua ultima puntata prima della probabile chiusura; ai microfoni si alternano le voci di cantanti e comici di varie generazioni, mentre una presenza 'angelica' si aggira fra i presenti, foriera di una silenziosa minaccia. In un costante corto circuito tra realtà e finzione, e potendo disporre di un cast a dir poco sontuoso capitanato da Meryl Streep, un Robert Altman ultraottantenne firma il proprio "testamento artistico", per quanto inconsapevole (l'istancabile cineasta, scomparso pochi mesi dopo l'uscita del film, era già al lavoro su altri progetti). Eppure, non sarebbe stato possibile concepire un canto del cigno più perfetto: connotato da una levità pressoché inedita per Altman, Radio America è l'elegia funebre di un mondo ormai al crepuscolo, in cui il senso di malinconia è mitigato però da una consapevolezza autoironica che suscita al contempo la commozione e il sorriso. E la scena finale, con la compagnia di amici che brindano in allegria sotto lo sguardo di un angelo della morte in impermeabile bianco, suggella un epilogo - di un singolo film e di un'intera carriera - di rara bellezza e poesia.