Recensione Una famiglia perfetta (2012)

Paolo Genovese prende spunto da una commedia spagnola del 1996, ma sviluppa la storia in modo personale e originale: costruendo così un film interessante e difficile da classificare, un balletto surreale e dal ritmo sostenuto ma dall'anima intimamente malinconica.

Una realistica recita natalizia

Siamo in un casolare di campagna, il giorno della vigilia di Natale. Nella famiglia di Leone, 50 anni, fervono i preparativi per l'imminente festa; nonna Rosa è già affaccendata in cucina e si prepara a sfornare le sue speciali pietanze, mentre il capofamiglia, insieme alla moglie Carmen, aspetta l'arrivo del fratello Fortunato, e della consorte di quest'ultimo, Sole. Anche i piccoli Daniele e Angelo non vedono l'ora che arrivi sera, perché la famiglia si riunisca per celebrare il caldo rito festivo; persino i figli più grandi, Pietro e Luna, sembrano più rilassati del solito, nonostante le inevitabili schermaglie. L'enorme tenuta è addobbata a festa, tutto sembra perfetto. Ma tutto questo, in realtà, non è che una recita, una simulazione: Leone, infatti, è in realtà un uomo solo, il casolare è stato preso in affitto per un giorno, e tutti coloro che stanno intorno all'uomo sono attori, pagati per recitare un copione e per vestire, per l'occasione, i panni dei suoi familiari.


Si avvicinano le festività natalizie, anche per gli spettatori italiani: accanto all'immancabile cinepanettone, alle commedie più leggere, ai blockbuster hollywoodiani e alle pellicole d'animazione, quest'anno si può trovare nelle sale anche qualche proposta più originale, nonché più difficilmente catalogabile. E' il caso di questo Una famiglia perfetta, interessante nuova opera di quel Paolo Genovese che già aveva dato buoni risultati con la commedia di spessore, dal carattere corale, in pellicole come i due Immaturi. Qui, il regista riprende in mano un suo vecchio progetto, originato da un'idea di remake di un film spagnolo: una commedia datata 1996 dal titolo Familia, diretta da Fernando León de Aranoa. Il regista romano, tuttavia, trae solo l'idea iniziale dal film iberico (un uomo che prende "in affitto" una famiglia che non ha) per poi sviluppare la trama in modo del tutto originale: nuovo è infatti il setting natalizio, del tutto diversi i personaggi di contorno e le situazioni. Nel film di Genovese confluiscono semmai suggestioni da commedia all'italiana (e per una volta il paragone non è peregrino), il cinismo malinconico di Ettore Scola, i bozzetti familiari di un Pupi Avati rivisitato e deragliante.

La narrazione e l'impianto di base possono trovare antecedenti illustri nel teatro di Luigi Pirandello, altro riferimento ovvio se solo si pensa al tema del film: e, d'altronde, la riflessione sull'arte del recitare, che informa di sé tutta la pellicola, non può che rimandare a un immaginario (genuinamente) teatrale. Ma Una famiglia perfetta ha tempi e regia tipicamente cinematografici, e una gestione del ritmo che può esplicitarsi a pieno solo sul grande schermo: il regista chiede molto ai suoi attori, carica su di loro molta della responsabilità del registro meta-linguistico del film, dimostrando, come in passato, un'ottima capacità nella loro direzione; ma poi non si tira indietro quando si tratta di offrire soluzioni forti di messa in scena, fa della casa un ambiente accogliente e insieme claustrofobico, esalta visivamente i suoi colori natalizi, gioca intelligentemente con il montaggio e con il fuori campo. Il risultato è un balletto surreale, colorato, ritmato quanto intimamente cupo e malinconico, che vede al centro un personaggio che è insieme spettatore e primo attore: lasciato libero di far fuoriuscire tutta la sua vena istrionica, Sergio Castellitto è un protagonista perfetto, coi suoi rapidi, e a volte inquietanti, cambi di registro. Ma tutto il cast, a cominciare dai consorti Claudia Gerini e Marco Giallini, oltre alla sempre apprezzata presenza di Ilaria Occhini, gira invero al meglio: segno della già ricordata attenzione del regista per il lavoro con gli attori.
I due livelli di realtà si confondono gradualmente, con il progredire della narrazione, mentre il copione che il protagonista ha fornito ai suoi attori viene sempre più frequentemente disatteso. La realtà si insinua gradualmente nella finzione, e i sentimenti di ogni membro del gruppo verso l'altro (e verso l'enigmatico Leone) vengono rimessi continuamente in discussione. L'improvvisazione diventa la norma, e la recita si trasforma presto in qualcos'altro: un pezzo di vita, quella che il protagonista brama e insieme respinge. La tensione tra una solitudine autoimposta e il rituale (quasi misticheggiante) della comunità familiare che si riunisce, e si riconosce, trova nell'ambientazione natalizia il suo miglior veicolo di espressione. La rivelazione finale, che dà il senso ultimo alla vicenda (e che ovviamente non anticipiamo) lascia stupiti, ma in fondo non impreparati. L'happy ending è solo apparente, o forse potenziale: le rappresentazioni, in fondo, hanno un finale prestabilito, ma la vita non ce l'ha. Sui titoli di coda, fuori campo, c'è tutto un mondo: non ne saremo testimoni, ma certo non dubitiamo della sua esistenza.

Movieplayer.it

4.0/5