Replicare un successo è sempre un'impresa impossibile. In Viva la libertà Roberto Andò e Toni Servillo avevano offerto agli spettatori il meglio di sé. Nel nuovo film del regista siciliano, Le confessioni, non avviene lo stesso. Proseguendo sulla falsa riga di un'indagine sulla politica italiana, Andò tenta di darvi un respiro internazionale, e non solo attraverso i grandi nomi che figurano nel cast. Questa volta ci troviamo in Germania dove un hotel di lusso di trasforma nella sede di un G8.
I ministri dell'economia più influenti del mondo si riuniscono per adottare una manovra che avrà delle gravissime conseguenze sui paesi in via di sviluppo. Il direttore del Fondo Monetario Internazionale, Daniel Roché (Daniel Auteuil) chiede che venga ospitati anche tre "estranei": il monaco certosino Roberto Salus (Toni Servillo), la celebre scrittrice di libri per bambini Claire Seth (Connie Nielsen) e la rockstar Michael Wintzl (Johan Heldenbergh). Nel corso della prima notte Roché chiederà a Salus di confessarlo e da quel momento il monaco comincerà ad essere percepito dal resto della ciurma come un'entità più pericolosa e destabilizzante del previsto.
Obiettivo mancato
Guardando il lungo incipit di Le confessioni, caratterizzato da eleganti riprese dall'alto e degli ambienti esterni dagli echi fortemente sorrentiniani non si rimane indifferenti di fronte al fascino che questo film sembra capace di esercitare. Purtroppo le ottime premesse estetiche iniziali si scontrano immediatamente con un soggetto già di per sé poco intuitivo. Che la presenza di un monaco all'interno di summit economico possa risultare ingombrante rientra nell'ordine naturale delle cose. Eppure il Salus di Servillo potrebbe ancora riservarci qualche sorpresa con la sua indole irriverente e l'aura di mistero da cui è presumibilmente circondato. Salus, un religioso atipico, in via di estinzione, presta il voto del silenzio, non è interessato al denaro o al potere, scrive libri poco ortodossi e fuma. Ma nel confronto con le anime morte della classe dirigente appare evanescente, sciorina le massime di Sant'Agostino ("il tempo è una variabile dell'anima", "la confessione è il grido della coscienza") e a fine film da certosino sembra trasformarsi in francescano ad hoc, intrattenendo uno strano dialogo con gli animali. Con gli umani ha perso le speranze, con il film anche.
Gli inappropriati paragoni eccellenti
Sebbene rappresentino un chiaro punto di riferimento per il regista paragonare Le confessioni a Todo modo di Elio Petri o addirittura a Io confesso di Alfred Hitchcock è a dir poco sacrilego. Contrariamente al visionario testo di Sciascia trasformato dal regista romano in una lucida e acuta disamina delle perversioni dei rappresentati del potere negli anni Settanta, Andò attacca quelli di oggi rifugiandosi nel paternalismo. I suoi dialoghi infarciti di prediche, accompagnati dalla costante intrusione delle musiche composte da Nicola Piovani e delle prevedibilissime metafore (su tutte l'acqua e l'Alzheimer) rendono i personaggi ridondanti quanto immobili e ripetitivi. A farne le spese più di tutti gli altri è un Pierfrancesco Favino, imbrigliato nei panni del ministro italiano più anonimo che si sia mai visto in un'opera cinematografica. L'unico a mostrarsi superiore ai limiti della sceneggiatura è Daniel Auteuil, che si conferma uno degli attori francesi più validi del nostro tempo. Al suo Roché spettano le battute più riuscite del film. "La vita mi appare tollerabile solo se riesco a schivarla", afferma nel corso della sua lunga conversazione con Salus.
Il peccato originale
Il peccato originale di Le confessioni è un peccato di presunzione. Nonostante registi ed interpreti abbiano più volte dichiarato in questi giorni di promozione che il film consente allo spettatore di accedere alle stanze segrete dei potenti non intravediamo il minimo segno di scoperta o rivelazione. La corruzione, i giochi di potere, la banca intesa come società segreta: tutto è stato talmente detto, decantato, denunciato negli ultimi anni che il tentativo di Andò finisce per rivelarsi quasi anacronistico. Guardando il suo film non ci si indigna, come se fossimo di fronte alle cruente immagini di un telegiornale qualunque, atrofizzati dalla cadenza quotidiana con cui questi orrori continuano a consumarsi. Ridicolizzare gli uomini di potere con ogni mezzo che ha a sua disposizione (barzellette, equazioni, battute, citazioni, disegni) non è più sufficiente. "L_a pietà è l'unico fronte per cui vale la pena combattere_", afferma Salus. Peccato che il film sia impotente tanto quanto coloro a cui si rivolge.
Movieplayer.it
2.5/5