Recensione L'amore che resta (2011)

L'equilibrio tra il carattere melò della storia e la misura nei toni della narrazione è il punto di forza di questo film, con cui Van Sant racconta una storia d'amore che, al netto del contesto in cui prende piede, ha comunque tutti i crismi della classicità.

Vivere, morire e amare a Portland

Enoch e Annabel sono due outsider. Non per scelta, certo. Lui è riemerso da un coma di tre mesi dopo un incidente automobilistico in cui sono morti entrambi i genitori, ha come amico il fantasma di un pilota giapponese kamikaze e passa il suo tempo partecipando a funerali di sconosciuti; lei entra ed esce dall'ospedale a causa di un tumore al cervello che le lascia pochi mesi di vita, ma è sempre curiosa, esuberante ed innamorata della vita. Quando i due ragazzi si conoscono a un funerale, le loro diverse solitudini trovano un completamento reciproco: la voglia di vivere di Annabel, le sue letture sul mondo della natura, la sua ansia di usare al meglio il pochissimo tempo che le rimane, finiscono per contagiare il cupo Enoch e fargli vedere la vita che potrebbe e dovrebbe avere, e che invece sta consapevolmente lasciando fuori dalla porta; per Annabel, invece, la vicinanza del ragazzo è un sostegno e un aiuto a prepararsi a ciò per cui non si può essere pronti, in grado di rimpiazzare una madre assente e schiava dell'alcol, e una sorella che si sforza ma non riesce a capire le sue esigenze. Su tutto, l'ombra del grande nulla (o forse - ma nessuno di loro due ci crede fino in fondo - di un felice domani) lambita e accarezzata ripetutamente dai due, simulata e discussa più volte, esorcizzata ma soprattutto intesa come complemento naturale della vita, da accettare spontaneamente senza farne un tabù.


La mente corre spontaneamente a un classico come Harold e Maude di Hal Ashby, leggendo la trama di questo Restless (titolo significativo impropriamente normalizzato nell'italiano L'amore che resta): e, d'altronde, il cinema di Gus Van Sant, e in particolare le sue opere più piccole e personali, hanno sempre echeggiato i motivi della New Hollywood, sia nella concezione della messa in scena che nella direzione degli attori. Qui il regista, partendo da una sceneggiatura di Jason Lew (inizialmente pensata per una serie di brevi piece teatrali) prende di petto la love story per eccellenza, quella tra due adolescenti, trasportandola però su un terreno non convenzionale che in qualche modo ne rovescia i presupposti. Se gli adolescenti sono soliti promettersi amore eterno, sfidando la morte e ritagliandosi nello spazio delle loro relazioni un pezzetto di immortalità, qui la morte è combattuta attraverso la maturità della consapevolezza espressa da Annabel, ma anche con una tranquilla e spontanea voglia di conoscere, di approfondire, di penetrare la fine dell'esistenza come argomento che può arricchire, e quindi, in ultima analisi, come riaffermazione della vita. Non è solo provocazione, quella con cui il film affronta e svuota di ogni sacralità questo tema tuttora (e forse destinato a restare sempre) tabù, ma semplicemente la voglia di raccontare due esistenze che in esso trovano un significativo punto di contatto, e che attraverso esso riescono a capire meglio loro stesse e a trovare sostegno reciproco.

E' sostanzialmente misurato, il modo in cui Van Sant racconta una storia d'amore che, al netto del contesto in cui prende piede, ha comunque tutti i crismi della classicità; l'enfasi è tenuta sempre a freno, così come il rischio di un pietismo (magari involontario) in cui sarebbe stato facile scivolare dato il tema. Se il film non ha paura di mettere in scena il languore del rapporto tra due adolescenti, l'eterno bisogno, impossibile da sopire, di riempirsi di quell'emozione tipico di quell'età, il regista riesce come sempre a far parlare anche i volti e i corpi, a riempire e a rendere significativi i silenzi (come nel bellissimo finale), a trarre il meglio dai suoi attori, che qui hanno i volti espressivi ed efficaci di Mia Wasikowska ed Henry Hopper (figlio, quest'ultimo, del compianto Dennis Hopper, alla cui memoria il film è dedicato). E' da segnalare anche il personaggio del pilota Hiroshi (interpretato da Ryo Kase), elemento che esprime, nel film, un'importante componente onirica che è tenuta intelligentemente nell'ambiguità, ma che ben rappresenta il bisogno del protagonista di rapportarsi costantemente alla morte, così come lo stimolo a ricominciare a vivere. Una componente che prende il sopravvento nei minuti finali, e che consente di lasciare fuori campo il momento emotivamente più forte (beffardamente simulato precedentemente) in una sequenza in cui il coinvolgimento emotivo è ben bilanciato dalla misura nel tono.
L'equilibrio tra il carattere melò della storia e la misura nei toni della narrazione è più in generale il punto di forza di questo film, equilibrio espresso anche visivamente nella fotografia, che se da un lato esalta la bellezza e i colori degli scenari autunnali della cittadina di Portland, nell'Oregon, dall'altro presenta un taglio naturalistico e minimale, con una grana ben visibile sulla pellicola che rimanda ai tanti esempi di cinema anni '70 omaggiati dal regista. Un equilibrio che non viene quasi mai meno nei 95 minuti di durata del film (sufficienti a Van Sant per raccontare la sua storia in modo efficace ed essenziale) e che rende L'amore che resta una pellicola meritevole di visione, che magari non metterà d'accordo tutti ma a cui non si possono non riconoscere sincerità e spontaneità, e soprattutto coraggio nella scelta del tema e nel modo di narrarlo.

Movieplayer.it

4.0/5