Recensione Il sorriso del capo (2011)

Marco Bechis va alle radici del fenomeno della propaganda fascista, una 'fabbrica del consenso' comune a tutte le dittature, ma che chiaramente assume una diversa valenza per noi spettatori e cittadini di oggi.

A sua immagine

Credere, obbedire, combattere. Quale delle tre parole di questo motto rappresenta la chiave del Fascismo? Senza dubbio la prima e Marco Bechis lo spiega benissimo nel suo bel documentario, Il sorriso del capo, presentato nella sezione Festa mobile: Figure nel paesaggio del Torino Film Festival 2011. Credere come si fa con un dio misericordioso e vendicativo, come si fa quando il pensiero ed ogni capacità di discernimento si volatilizzano. Semplicemente e senza domande fuori luogo credere in Benito Mussolini. Padre di famiglia, guerriero virile, illuminato Capo di Stato (ogni segmento del documentario si chiude su un pezzo del discorso che un Mussolini in maniche di camicia fece proprio a Torino nel 1932), il Duce affascinava tutto il popolo italiano: seduceva l'intellettuale che in lui vedeva un modello culturale di riferimento e la casalinga 'strutturata' per allevare i fascisti di domani; l'operaio della fabbrica di stufe e lo studente universitario che insieme ad altre migliaia di persone radunate a piazza Venezia sentiva di poter davvero contribuire a rafforzare l'Italia. Uno di quei ragazzi, il padre del regista, la cui voce accompagna in certi punti le immagini di archivio dell'Istituto Luce, spiega ironicamente e senza mezzi termini il motivo di tanta abnegazione: 'Mi aveva convinto'
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Sfruttando la vicinanza di un testimone così particolare, il cineasta italo-cileno va alle radici del fenomeno, compiendo un percorso davvero efficace alla scoperta della propaganda fascista, quel grande meccanismo di comunicazione e affabulazione che serviva al potente di turno per ammaliare la popolazione, suggerendo in maniera evidente cosa pensare. Una 'fabbrica del consenso' comune a tutte le dittature, ma che chiaramente assume una diversa valenza per noi spettatori e cittadini di oggi. Come altre figure a lui contemporanee, ma in maniera del tutto originale e moderna, Mussolini intuì le grandi potenzialità del mezzo cinematografico, fondamentale per portare la sua immagine anche nei punti più sperduti dello Stivale e dare a tutti la sensazione di una costante presenza. La retorica altisonante dei cinegiornali dell'epoca si sposa alla perfezione con le mini fiction ante litteram, sketch propagandistici come quelli del Fesso di guerra, che avevano come scopo quello di incitare il popolo a non lasciarsi andare al disfattismo, pena una solenne presa in giro. Un messaggio di violenza inaudita presentato però in forme accattivanti, con canzoncine divertenti, scenette comiche o melodrammi strappalacrime.

Tutto doveva arrivare al cuore dello spettatore, bypassando il cervello. Seguendo l'ascesa e la caduta del Fascismo il montaggio di Bechis, autore del documentario assieme al giornalista del settimanale L'Espresso, Gigi Riva, mostra in maniera esemplare come la manipolazione sia stata usata per sostenere il mito Duce, dimostrando che per far credere davvero bisogna non abbassare mai la guardia, proporre alla popolazione un quantità sempre più grande di informazioni 'giuste', imponendo un pensiero unico. Si sorride oggi nel vedere le centurie dei Balilla farsi in quattro per salvare una bimba che si è persa, un'impresa chiaramente finta che viene mostrata per sottolineare l'ardimentoso spirito dei giovani fascisti, ma è lo spettacolo a cui assistevano i nostri nonni, i nostri genitori, uno show architettato appositamente per affascinare, in cui ogni parola veniva centellinata. Così, i linotipisti marciano, i bimbi saranno soldati forti, virili e italiani. Appunto, si sorride. Ma in quegli anni ci si credeva ciecamente.

Movieplayer.it

3.0/5