Recensione A Long and Happy Life (2013)

Il quadro che emerge da A Long and Happy Life è cinico e accurato, ma la storia, pur contenendo altamente drammatici, non decolla mai veramente.

La terra

La difesa della terra e la salvaguardia della vocazione agricola delle aree rurali sono tra i temi predominanti del concorso di questa 63° Berlinale. Dopo l'americanissimo Promised Land di Gus Van Sant, anche il russo Boris Khlebnikov affronta la questione nel drammatico A long and Happy Life. Al posto della verdeggiante Pennsylvania stavolta ci troviamo nella selvaggia penisola di Kola, nel nord della Russia. Anche in questo caso gli agricoltori locali, gestori o dipendenti di fattorie collettive, vengono costretti a cedere i propri terreni a una società incaricata di espropriare le terre per conto di un ricco compratore. Ma nella mente di Sacha, giovane imprenditore che si è trasferito in campagna dalla grande città, qualcosa scatta quando, già intenzionato a mollare tutto in cambio di una sostanziosa somma di denaro, si trova di fronte a un gruppo di lavoranti ben decisi a difendere la propria terra e il proprio impiego.

Come nel caso di Promised Land, la terra non rappresenta solo la difesa delle antiche tradizioni e la principale fonte di sostentamento di zone depresse, isolate ed esterne al circuito dei grandi traffici, ma anche un'eredità da tramandare alle generazioni future. Questa realtà viene chiaramente enunciata nel dialogo domestico tra uno dei lavoranti di Sacha e la moglie, dialogo in cui la lotta contro l'esproprio viene motivata con il desiderio di assicurare un solido futuro lavorativo ai loro figli. Nella spietata società sovietica, però, il dramma collettivo si trasforma ben presto in tragedia del singolo. Inaspettatamente ciò che viene a mancare nel film di Khlebnikov è proprio la presenza di quella comunità solida e tradizionalista che opera per riti collettivi ed emerge in Promised Land. La contrapposizione tra padrone e lavoranti, retaggio della cultura comunista su cui era fondata la società sovietica tradizionale, si capovolge e perde di significato quando è il padrone a pagare in prima persona la scelta di supportare la volontà dei suoi fattori di mantenere in attività l'azienda agricola sposando la loro causa con esiti imprevedibili.
Nella società contemporanea i valori e le ideologie precipitano di fronte all'egoismo e all'individualismo che muovono i personaggi, come ci mostra Boris Khlebnikov. L'attualità dello spaccato da lui messo in scena è frutto di uno sguardo realistico sul presente e del lungo lavoro di ricerca del regista e del co-sceneggiatore Alexander Rodionov che, per settimane, hanno esplorato le regioni centrali e settentrionali della Russia intervistando gli agricoltori (lo stesso personaggio di Sacha è ispirato alla storia vera di un imprenditore agricolo). Il quadro che ne emerge è cinico e accurato, ma la storia, pur contenendo altamente drammatici, non decolla mai veramente. Il lavoro ammirevole degli attori, tutti assolutamente in parte, si sposa all'asprezza della natura lussureggiante ben fotografata mentre assiste impassibile alle miserie umane. Il film, però, manca di potenza e la scelta di perseguire la via del rigore mostrando la progressiva alienazione dei personaggi - in particolare di Sacha - penalizza la comprensione delle motivazioni che lo spingono ad andare fino in fondo nella sua difesa estrema dell'attività da cui poco prima si voleva sbarazzare. Il finale, bello e spiazzante, rappresenta la chiosa di un'opera ricca di potenzialità inespresse.

Movieplayer.it

3.0/5