Anche una persona molto intelligente può fare una cosa molto stupida. Almeno in apparenza. È quello che succede a Michael Scofield, uomo brillante e ingegnere talentuoso che fa di tutto per essere rinchiuso nel penitenziario di Fox River. Una scelta paradossale ma dalla motivazione semplice, perché risponde alle ragioni del cuore. Suo fratello Lincoln è rinchiuso in prigione, condannato a morte per un omicidio che non ha commesso e la morte di un uomo ancora vivo. Burrows è stato incastrato dagli alti poteri politici, capro espiatorio e vittima sacrificale di una fitta cospirazione governativa. Ed ecco che l'atto estremo di Michael si rivela tutt'altro che insensato, ma un primo, doveroso passo di un piano complesso, organizzato nei minimi dettagli, tanto da essere impresso nella mente e sul corpo tatuato di un uomo geniale e determinato.
Alla base di Prison Break c'è quindi la molla di una motivazione ferrea e condivisibile, di un'ingiustizia da combattere con ogni mezzo a disposizione. Così anche l'illecito diventa ammissibile e un gesto sbagliato può compiersi in nome di qualcosa di giusto. Basato quasi totalmente sull'intreccio, piuttosto che sull'approfondimento psicologico dei personaggi, la serie ideata da Paul Scheuring è votata ad un'azione incessante, anche quando vincolata agli spazi ristretti. La prima stagione parte da un'ambientazione claustrofobica e con una missione impossibile, scintilla iniziale di una miccia lunghissima, piena di eventi, doppiogiochisti e complotti. L'avventura di Michael e compagni procede verso una seconda stagione on the road, dove l'evasione si trasforma in fuga, una corsa forsennata. E se la terza ritorna sui suoi passi e assomiglia tanto ad un ripensamento nostalgico (al limite del reboot), tra le mura fetide e anarchiche della prigione di Sona, la quarta ritorna per le strade rimescolando ancora una volta le carte in gioco. Le vittime diventano carnefici mentre lo scappare lascia spazio all'infiltrarsi.
Giocando con i generi e le dinamiche della narrativa cinematografica (dall'escape movie all'heist movie), Prison Break ha messo in atto una serie di scelte dal retrogusto ambiguo, tra rivoluzioni coraggiose e ripensamenti rischiosi, senza mai perdere quella vocazione naturale verso il colpo di scena ansiogeno che ha incatenato milioni di spettatori, esaltati e a volte perplessi da quanto accadeva sul piccolo schermo. Quattro stagioni, proprio come quelle di un anno, nel corso delle quali si sono alternati momenti caldi e altri più freddi, dove ci è stato mostrato come essere rinchiusi in una cella non sia l'unico modo per sentirsi in prigione, perché esistono anche manette invisibili come i traumi del passato e costrizioni imposte da chi detiene il potere. Lontana dai toni autoriali e più sofisticati del precedente Oz, dal 2005 al 2009 Prison Break si è imposto come un prodotto commerciale di puro intrattenimento, sempre alla ricerca dell'effetto sorpresa attraverso una narrazione serrata, affollata di personaggi sempre connessi tra loro. A pochi giorni dalla notizia di una nuova mini-serie di dieci episodi dedicata a Scofield e Barrows (in arrivo nel 2016), abbiamo deciso di tornare tra le mura di Fox River e le strade degli States, per capire cosa ha funzionato e cosa no in quella folle corsa di nome Prison Break, piena di traguardi raggiunti con un bel po' di affanno.
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Punti forti di Prison Break
1. Il piano di Michael Scofield
Prison Break parte come un viaggio tra i corridoi di un enorme carcere, ma col passare del tempo diventa soprattutto un'esperienza cerebrale all'interno di quel contorto labirinto che è la mente di Michael Scofield. Anni e anni di studio della struttura da cui fuggire, con tanto di meticolosa analisi di tempi, oggetti e materiali utili all'evasione. Da una piccola vite sotto una panca a dei documenti falsi sotterrati in un cimitero, passando per pillole nascoste sotto pelle, numeri telefonici e intuizioni istintive sempre a portata di mano. Il piano del protagonista di Prison Break è grandioso e affascinante, anche perché sintetizzato sul corpo del nostro Scofield con un complesso tatuaggio. Petto, schiena e braccia tratteggiano una mappa corporea fitta, piena di informazioni e planimetrie ben nascoste da un enorme disegno simbolico. L'eterno scontro tra Bene e Male vede angeli e demoni scontrarsi sulla sua epidermide, metafora evidente del gesto moralmente ambiguo di Michael. Il volto criptico di Wentworth Miller fornisce la giusta dose di mistero a questo ragazzo dalla condotta machiavellica, persona pragmatica e altruista che non si arrende davanti ai mille imprevisti che la vita gli pone davanti. Anche in un luogo dedito alla violenza come un penitenziario, Scofield rappresenta l'elogio di una mente brillante ed elastica, la vittoria dell'intelligenza calcolatrice sulla forza bruta, del pensiero sulla prepotenza. E il suo piano non può che rimanere impresso. Proprio come un tatuaggio.
2. Ritmi forsennati
La serie ha un altro merito evidente, una caratteristica abbastanza rara nel panorama seriale e sicuramente apprezzabile: mette subito le cose in chiaro. Nell'arco di mezza puntata sappiamo subito chi sono i protagonisti, quali sono le loro intenzioni e quali sono i legami che li tiene uniti. Questa immediatezza rimane intatta per tutta la prima stagione e per buona parte della seconda; una scelta che immerge il pubblico in un vortice di eventi incalzanti, gestiti da una trama fitta, caratterizzata dall'effetto domino. Il ritmo della narrazione è palpitante, quasi tachicardico, grazie ad un utilizzo tartassante di cliffhanger e colpi di scena, non solo a fine stagione o a fine puntata, ma disseminati ovunque. Il fatto che sin dal primo momento si capisca che Scofield stia lottando contro un'ingiustizia e un sistema malefico penetrato sino alla Casa Bianca (la celebre Compagnia) ci rende loro complici. Noi tifiamo per Scofield e Barrows, affezionandoci persino ai loro più o meno perfidi compagni di cella (Sucre e Westemoreland su tutti). Questa empatia rende decisamente ansiogena una serie di sequenze in cui secondini, agenti e poliziotti stanno per scovare i nostri beniamini galeotti. Il timore per la loro sorte si traduce in una visione piena di apprensione. Insomma, siamo tutti ammanettati al destino di Scofield.
3. Prigione adorata
La prima stagione di Prison Break è senza dubbio la migliore, la più ispirata e coerente con il titolo e lo spirito della serie. Una credibilità narrativa agevolata anche dalla scelta di girare le prime 22 puntate all'interno di un vero penitenziario, la Joliet Prison dell'Illinoins, caduta in disuso dal 2002 per problemi finanziari. Costruito nella seconda metà dell'Ottocento, il carcere ha ospitato per anni giovani ergastolani e celebri criminali, la cui presenza spettrale ha più volte inquietato il cast. Molti attori hanno affermato di aver vissuto con reale angoscia il realismo del set, perché condizionati dal ricordo di quanto avvenuto tra quelle mura. I corridoi stretti, le celle impersonali, le torri merlate e una facciata d'ingresso dal richiamo medievale sembrano una via di mezzo tra un castello e un labirinto spoglio. Anche l'ambientazione della terza stagione, tra le mura panamensi di Sona, non pecca di fascino. Un luogo abbandonato a se stesso, senza controllori e autogestito dai detenuti che assomiglia ad un caotico girone dantesco. In Prison Break la prigione è un personaggio quasi imprescindibile, perché dentro di sé ospita microsocietà con leggi, equilibri e rapporti che abbracciano anche lo spettatore.
4. Legami di sangue
Assassini, criminali, doppiogiochisti. Il panorama umano della serie è stracolmo di personaggi ambigui, se non del tutto detestabili. Fidarsi di qualcuno è un'impresa impossibile, anche perché la maggior parte delle relazioni si basa sul baratto e sul tornaconto personale. All'interno di questo scenario desolante, il legame di sangue tra Michael e Lincoln emerge in tutta la sua forza. Due fratelli molto diversi ma complementari, uno impulsivo e uno calcolatore, personaggi speculari che fanno di tutto per salvarsi la vita. Tra momenti di rassegnazione e sussulti di speranza, l'amore per la famiglia è il vero collante di Prison Break, più forte di padri scomparsi e madri che si rivelano nemiche.
5. Il serpente e il cacciatore: T-Bag e Mahone
Il motto costante dello show potrebbe essere "l'unione fa la forza". In effetti Prison Break vive di labili equilibri di gruppo, basato su una fitta rete di interessi reciproci. Rapporti di forza, gerarchie, alleanze, favori e ricatti si intrecciano di continuo tra una decina di personaggi, tutti caratterizzati in modo più o meno approfondito e riuscito. Non ce ne voglia il pur sempre carismatico John Abruzzi (un grande Peter Stormare), ma tra la folta marmaglia della serie troviamo che T-Bag e Mahone siano senza dubbio i migliori comprimari. Robert Knepper ha dato vita ad un personaggio affascinante nonostante la sua condotta intollerabile, un individuo animalesco, viscido come un rettile e imprevedibile come un felino, con quel vezzo della tasca fuori dai pantaloni e lo sguardo folle che dominano la scena. Dall'altra parte della morale troviamo un solido William Fichtner nei panni di un agente F.B.I. che sembra subito tenere testa alla genialità di Scofield. Esatto opposto di Bellick, secondino irruento e sempliciotto, Mahone si presenta come un personaggio intrigante e poliedrico, dotato di una personalità complessa anche perché pieno di debolezze e scheletri nell'armadio. Mahone e T-Bag sono i due lati di una presunta medaglia; sono il male e un tentativo di bene, il desiderio del caos e la necessità dell'ordine, un serpente e un cacciatore.
6. All'interno di un videogame
Uscire di prigione senza più passare dal "via". Sembra un gioco da tavolo, con tanto di imprevisti, ma in realtà Prison Break assomiglia di più ad un videogioco. Come all'interno di un'avventura videoludica, abbiamo uno spazio ristretto con un tempo limitato, dei luoghi da studiare nei particolari e soprattutto delle missioni da compiere con un tasso di difficoltà sempre crescente. Scofield spesso deve muoversi da un punto A ad un punto B per progredire nel suo incedere verso l'obiettivo finale, adottando dinamiche stealth alla Metal Gear e processi intuitivi alla Broken Sword. Non a caso nel 2010 è stato pubblicato il videogioco Prison Break: The Conspiracy, tie-in piuttosto deludente, ambientato nel corso della prima stagione. Quasi un canto del cigno nostalgico della vecchia gloria.
Punti deboli
1. Fuga per la sconfitta
Assistere a Prison Break potrebbe indurre lo spettatore in una specie di Sindrome di Stoccolma. Col passare delle puntate amiamo vedere i protagonisti alle prese con il pericolo, impariamo ad apprezzare il rischio di essere scoperti e la paura palpabile che qualcosa vada storto. Ci nutriamo delle difficoltà, delle situazioni estreme e disperate. Insomma, diventiamo vittime dei carnefici. Ecco perché una volta usciti di prigione qualcosa cambia radicalmente. In alcuni momenti della seconda e della quarta stagione (soprattutto) la mancanza di un ambiente opprimente come la prigione sfilaccia la narrazione e diluisce la tensione, rendendoci quasi orfani delle mura di Fox River e Sona. La claustrofobica sensazione di pericolo e del gesto proibito svaniscono di colpo, rendendo la fuga e la libertà due opzioni non tanto gradite. Quando i corridoi lasciano spazio alle strade qualcosa cambia, tradendo la natura di una serie che, non dimentichiamolo, ha la prigione nel titolo e quindi nel suo DNA.
2. Sfidare il verosimile
Al contrario di Lost, qui nessuno ha mai pronunciato una frase del tipo "dobbiamo spostare il carcere". Prison Break non scomoda mai la fantascienza perché cerca di essere il più verosimile possibile. Dando per scontata una buona dose di sospensione dell'incredulità da parte del pubblico, la serie ha cercato di imbastire una narrazione che risultasse sempre credibile. Ma le cose non sempre sono andate in questa direzione. In molti avranno storto il naso di fronte ad una serie di forzature poco plausibili (mani riattaccate, coincidenze assurde, colpi di fortuna spudorati) tra le quali svetta la finta scomparsa di Sara Tancredi. Data per morta nel corso della terza stagione (con Lincoln che ritrova la sua testa in una scatola), eccola riapparire nella prima puntata della quarta. Una scelta degna del peggior Beautiful, una caduta di stile al limite dell'imperdonabile.
3. Cattivi stereotipi
Un boss italo-americano, un focoso portoricano e il classico asiatico nerd amante della tecnologia. Sono solo alcune delle figure stereotipate presenti in Prison Break. Ma se personaggi come John Abruzzi e Fernando Sucre assumono una caratterizzazione distintiva, agli antagonisti della serie è stato riservato un trattamento molto più superficiale. Con l'unica eccezione di Kellerman, tutti gli altri personaggi negativi sono rigidi, piatti, ingessati, incastrati dentro manichini statici. Dalla Vice Presidente Reynolds sino a Christina Scofield, ci troviamo davanti a personalità incolori, incapaci di mostrare al pubblico un carattere sfaccettato e complesso. La serie ha un po' sminuito la figura del cattivo, trattando in modo superficiale il tema del potere. Per visioni più penetranti e soddisfacenti sull'argomento è meglio rivolgersi altrove, dalle parti di Westeros e della Casa Bianca...
4. Una serie di genere
A chi si rivolge Prison Break? Il suo è un pubblico trasversale? È difficile pensare ad una platea eterogenea, perché la serie ha una spiccata propensione nei confronti del pubblico maschile. Questo è dovuto ad una serie di fattori, su tutti lo spirito di cameratismo presente in ogni stagione, grazie ad una coralità testosteronica che vede tanti uomini aiutarsi, scontrarsi, tradirsi. Se tra loro è facile trovare un beniamino e un carattere affine per cui tifare, la scarsa attenzione rivolta ai personaggi femminili impedisce ad una spettatrice di identificarsi e legarsi alla serie. Sara Tancredi fa breccia solo nel cuore di Michael senza mai risultare pienamente amabile; stesso discorso per la testarda Veronica e la temibile Gretchen. Probabilmente al di là della scrittura, anche le interpretazioni non hanno aiutato ad espandere la portata della serie anche verso le donne. Per fortuna, quasi per par condicio, nel 2013 è arrivato lo splendido Orange Is the New Black.
5. Un cast prigioniero
Galeotta fu la serie e chi vi prese parte, perché chi è entrato in Prison Break non è riuscito a spiccare il volo. A dire il vero questo non è un vero e proprio difetto, ma una constatazione facilitata dal "senno di poi". Quasi tutti gli interpreti non sono riusciti a dare costanza al grande successo commerciale della serie. Chi era già noto ha continuato la propria carriera da co-protagonista (Peter Stormare, William Fichter e Frank Grillo, entrato nel Marvel Cinematic Universe), mentre gli attori consacrati da Brett Ratner e Paul Scheuring non hanno brillato del tutto. Wenworth Miller si è imbarcato nella dimenticabile saga cinematografica di Resident Evil, Dominic Purcell ha preso parte a produzioni minori (tra cui ben due film diretti da Uwe Boll), e il talento di Robert Knepper, tornato nei panni di T-Bag nella serie I signori della fuga, è rimasto sempre in disparte anche in blockbuster come Hunger Games: Il Canto della Rivolta - Parte 1. Forse l'unica eccezione è stata Sarah Wayne Callies, la Lori Grimes di The Walking Dead, ma va detto che anche in questo caso il suo personaggio non ha ispirato poi così tanta empatia da parte del pubblico. Chiudiamo la nostra carrellata con due piccole, curiose coincidenze. Nella terza stagione di The Walking Dead il personaggio di Wayne Callies muore proprio all'interno di una prigione, invece Miller appare per la prima volta in Resident Evil: Retribution dentro una cella. Evadere da Prison Break è davvero una folle impresa.