"Loro sono ricchi, ma sono gentili." "Sono gentili perché sono ricchi."
Nella prima sequenza di Parasite, i due fratelli Ki-woo e Ki-jeong si aggirano freneticamente nell'angusto seminterrato in cui vivono, agitando i cellulari nel tentativo di intercettare una connessione senza password e trovando finalmente un wi-fi disponibile solo nel loro bagno, accanto al water. È un momento del film di Bong Joon-ho in cui si mescolano umorismo e amarezza, mentre lo smartphone, oggetto-simbolo della contemporaneità e della comunicazione, nella sua impossibilità di funzionare a dovere diventa un manifesto della condizione di disagio della famiglia Kim, costretta a 'scroccare' internet alla stregua di un bene di consumo primario di cui è impossibile fare a meno.
L'ironia venata di dramma, secondo la lezione del neorealismo, del resto è uno degli elementi costitutivi del settimo lungometraggio di Bong Joon-ho, accolto trionfalmente al Festival di Cannes 2019, dove ha conquistato la Palma d'Oro (qui vi rimandiamo alla nostra recensione di Parasite). Un film sfaccettato e complesso, in cui l'autore coreano amalgama una pluralità di spunti e di registri diversi, combinati fra loro in maniera sorprendente, per dipingere un angosciante affresco sociale: non tanto una lotta di classe, che in Parasite sembra una chimera addirittura inconcepibile, quanto un'analisi dell'invidia suscitata da quello che quasi mezzo secolo fa, in un altro capolavoro non ascrivibile ad alcuna categoria, Luis Buñuel definiva Il fascino discreto della borghesia.
Il popolo del sottosuolo: uomini e topi
Non è la prima volta che il regista si confronta con tematiche simili: sei anni fa uno dei migliori film di Bong Joon-Ho, Snowpiercer, trasposizione della graphic novel Le Transperceneige (e sua prima produzione in lingua inglese), adoperava i codici della fantascienza distopica per mettere in scena una rabbiosa lotta per la sopravvivenza fra classi sociali a bordo del treno del titolo. A livello spaziale, Snowpiercer è un film sviluppato "in orizzontale": l'avanzamento del drappello di protagonisti lungo i vagoni corrisponde alla loro progressiva rivalsa contro il ceto dei ricchi, fino a raggiungere la sede del potere, la locomotiva. E in Parasite il regista costruisce un meccanismo analogo, ma con una differenza sostanziale: in questo caso, gli spazi come correlativo di una gerarchia socio-economica sono distribuiti in senso verticale.
I Kim, appunto, abitano in uno squallido seminterrato: appartengono a quel "popolo del sottosuolo" a cui è negata una piena dignità umana, come sottolinea la scena agghiacciante in cui i gas di una disinfestazione penetrano nel loro appartamento, sottoforma di una nebbia mortifera. Ki-taek, sua moglie Chung-sook e i loro figli, in fondo, sono posti sullo stesso piano dei ratti; fin quando il giovane Ki-woo coglie al volo l'opportunità di farsi ingaggiare come insegnante privato presso la ricchissima famiglia Park, con il compito di impartire ripetizioni di inglese alla loro figlia adolescente, Da-yhe. Per i Kim sarà la chiave d'accesso a un mondo del tutto nuovo, sintetizzato dalla villa in stile modernista dei Park, con le sue ampie vetrate e la fredda eleganza delle sue enormi stanze.
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Ricchi e poveri nella villa dei Park
La scenografia, realizzata da Lee Ha-joon, è una componente fondamentale del film di Bong: la maggior parte del racconto si svolge infatti all'interno della casa dei Park, un lussuoso edificio strutturato su più livelli. In alto, al primo piano, le camere dei coniugi Park e dei loro due figli, luoghi del privilegio a cui i Kim possono accedere in maniera limitata, e solo nelle proprie funzioni di 'servitù': è il caso di Chung-sook, assunta come domestica, e di Ki-woo, che accetta di prestarsi a "oggetto del desiderio" di Da-yhe e di soddisfare le pulsioni romantiche della ragazza. Il piano terra, con la cucina e l'enorme salone, potrebbe prefigurarsi come un ambiente più condiviso, ma anche lì permangono le barriere di classe, che Bong Joon-ho delinea in una sequenza in cui la suspense convive con una vena di caustico umorismo.
Ki-woo, Ki-jeong e loro padre Ki-taek sono nascosti sotto il tavolo del salone, in mezzo ai resti ammassati alla rinfusa della loro cena da 'parassiti', interrotta poco prima. Sopra di loro il signore e la signora Park, distesi sul divano, si dedicano con disinvoltura a una masturbazione reciproca, ignari di quelle tre persone pochi centimetri più in basso, schiacciate contro il pavimento. È un'immagine bizzarra, la cui patina grottesca cela un valore emblematico: la quieta inconsapevolezza di una borghesia immersa nella beatitudine del proprio benessere, al punto da non accorgersi nemmeno dell'esistenza di quegli individui accanto a loro. E infine, il livello inferiore: uno scantinato segreto avvolto in una tenebra perenne, il nascondiglio-prigione in cui si annida il parassita vero e proprio e da cui partirà una catena di colpi di scena e di pericoli inaspettati.
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Brutti, sporchi e cattivi?
Se già il confronto - impietoso - fra l'abitazione dei Kim e la residenza dei Park basta ad esprimere, sul piano visivo, la dicotomia al cuore di Parasite, il regista di Memories of Murder non perde occasione per rimarcare la distanza incolmabile fra l'altissima borghesia coreana e un sottoproletariato condannato ad una perenne precarietà. Una distanza a cui contribuisce perfino la natura: per la famiglia Park, un'alluvione è l'inconveniente che li costringe ad annullare un weekend in campeggio; per i Kim, la catastrofe in grado di distruggere la loro dimora e di ridurli a dormire per strada. Eppure, Bong Joon-ho non ingabbia il film in uno scontato manicheismo fra "poveri buoni" e "ricchi antipatici": Parasite è un'opera ben più problematica, da un punto di vista morale, e che non offre facili appigli allo spettatore.
Perché i Kim non sono solo astuti imbroglioni pronti a sfruttare una circostanza favorevole: sono personaggi spregiudicati, che non esitano a colpire senza pietà i dipendenti dei Park pur di neutralizzarli e di prenderne il posto, sfruttando l'ingenuità dei datori di lavoro. Al tempo stesso, però, non hanno alcuna intenzione di trasformarsi in 'carnefici' o di intraprendere una rivolta sociale, poiché ormai assuefatti al proprio statuto di subordinati; pertanto si limitano ad ammirare i piccoli comfort dei padroni, sognando di poter essere come loro. Un'utopia vagheggiata in un epilogo che si rivelerà, al contrario, quanto di più beffardo e struggente Bong potesse riservare ai suoi protagonisti: brutti, sporchi e cattivi, o forse semplicemente poveri.