Recensione Poltergeist: demoniache presenze (1982)

Ci sono ospiti inattesi all'interno del televisore. La piccola Carol Anne è l'unica che fa gli onori di casa. E se ne pentirà... Una fiaba horror firmata da Tobe Hooper (Non aprite quella porta) e dal re Mida di Hollywood, Steven Spielberg.

Non accendete quel televisore!

Poltergeist: demoniache presenze, escludendo a priori meriti e demeriti, costituisce uno di quei rari casi in cui il connubio tra produzione e regia è risultato incredibilmente fruttuoso. Il film di Tobe Hooper è difatti il cult che conosciamo proprio grazie alla sapiente collaborazione tra il regista e il produttore, un certo Steven Spielberg (in realtà coinvolto direttamente anche in cabina di regia) che con la pellicola in esame ottenne il primo grande successo come produttore. Poltergeist è dunque l'esito dei diversi temperamenti dei due cineasti americani: Hooper ha messo a disposizione della storia tutta la sua dimestichezza con il terrore, la critica sociale e gli effetti truculenti; Spielberg, da par suo, non ha invece lesinato i soliti tocchi fantastici che vedono come protagonisti i bambini, veri emblemi d'innocenza in tutto il miglior cinema spielberghiano.

Poltergeist è un horror per famiglie, è una fiaba malefica, confezionata sì come un blockbuster, ma costruita con tatto e discernimento. Il film del duo Hooper/Spielberg anticipa clamorosamente molte tematiche di pellicole successive come quella, palese, affrontata in The Ring (seppur a parti invertite): il televisore è il mezzo con cui forze sconosciute possono trovare accesso al nostro mondo, e la piccola Carol Anne non è altro che la versione buona ed illuminata (come il Danny di Shining, ancora una volta...) della vendicatrice Sadako/Samara, la protagonista della serie avviata da Hideo Nakata. Poltergeist è un enorme e fantasmagorico contenitore nel quale, come nelle antiche favole, il bene e il male vivono aprioristicamente separati. Ci pensa Tobe Hooper ad introdurre qualche elemento di disturbo "sociale", sin dalla sequenza iniziale, dove il filmato di fine trasmissione della rete televisiva nazionale è ripreso ossessivamente in primo piano come a catturare le profondità più riposte dello schermo e le menzogne dei mass-media (la Casa Bianca che compare minacciosamente come un vero mostro, come un poltergeist appunto, tra le frequenze disturbate del tv). Le bordate poi proseguono con un ritratto della tipica e tranquilla famiglia americana (il film è girato tutto praticamente in interni o lungo il perimetro dell'abitazione) che poi così non sembra essere: genitori che fumano presumibilmente erba leggendo una biografia del Presidente Reagan e la figlia maggiore Dana che si atteggia a ninfomane. Certo, non si esagera più di tanto, soprattutto perché il pudico Spielberg bada a tenere un po' a freno gli eccessi di Hooper, garantendo un raro equilibrio tra le diverse tendenze.

Non mancano citazioni esplicite (Guerre stellari, omaggiato a tutto tondo dai gadgets di Robbie e da una improbabile battaglia con i telecomandi, che qui sostituiscono la Light Saber della saga creata da George Lucas) ed altre più sotterranee (il canarino morto gettato nel water sembra quasi "incrociare" arditamente gli hitchcockiani Psycho e Gli uccelli). La colonna sonora di Jerry Goldsmith non è invece all'altezza della situazione: più che terrificare, il compianto compositore americano punta costantemente su sonorità morbide e avvolgenti anche quando, nelle scene più scioccanti, occorrerebbe più temerarietà (il grande momento dell'attacco del clown pupazzo a Robbie meritava ben altro trattamento musicale). Ma c'è da dire che Poltergeist non è propriamente un film horror. E' la pellicola che farà proseguire a Steven Spielberg la sua brillante e fortunata carriera nell'olimpo cinematografico. La porta del successo, da questa pellicola in poi, rimarrà invece quasi sempre non aperta in casa Hooper, come in un atto di estrema fedeltà al credo del suo film più famoso e più riuscito.