Di film di vendetta ne abbiamo visti tanti. Come quelli sul pugilato, grazie a pugni e violenza raccontano la vita in un luogo confinato, che però è in grado di diventare universale, parlando a tutti. La vendetta è una dimensione che vive nella mente di chi la insegue: le motivazioni e i modi per inseguirla ci dicono molto di quel personaggio. E anche del periodo storico in cui la sua corsa si compie. Pensiamo alla Sposa di Kill Bill di Quentin Tarantino: ispirato a La sposa in nero di François Truffaut, è molto diverso dal film del regista francese. Oggi il modello di riferimento del genere è John Wick e tutti devono qualcosa a Bruce Lee. Anche l'esordio alla regia dell'attore Dev Patel non fa eccezione. Come trovare quindi una propria identità con tanti maestri eccellenti alle spalle? Scopriamolo nella recensione di Monkey Man: un debutto da non perdere, che ha stregato anche Jordan Peele, grazie a cui viene distribuito in sala. In quelle italiane dal 4 aprile.
Patel, che ha inseguito questo film per dieci anni, è anche il protagonista assoluto: è Kid, ex galeotto che combatte sul ring con una maschera di scimmia. Il suo compito è farsi massacrare: sì, gli incontri sono truccati. Il suo vero scopo però è un altro: grazie al sottobosco criminale che frequenta, raccoglie informazioni su politici e poliziotti corrotti al soldo di una compagnia edilizia che ha causato la morte di sua madre Neela. Era lei che, fin da piccolissimo, gli raccontava il mito di Hanuman, figura del Ramayana metà uomo e metà scimmia, legato alla divinità Shiva. Per questo ha scelto come simbolo proprio questo animale.
Riuscito a ottenere un lavoro nel locale gestito da una delle persone coinvolte nei traffici dell'azienda, Kid parte dal basso, come lavapiatti. Da qui ha il via la sua lenta ascesa verso i piani alti del potere. Nel mentre entra in contatto con ogni tipo di umanità: dalle ragazze ingaggiate per intrattenere clienti facoltosi, a una comunità di Hijra (terzo sesso riconosciuto ufficialmente in India nel 2014), transgender che gli insegnano a trovare l'interezza, abbracciando sia il suo lato più fragile che quello violento. Come gli dicono loro, perché la sua vendetta si realizzi, deve diventare la vendetta di tutti.
Un esordio folgorante
La gestazione di Monkey Man è stata travagliata: prima le difficoltà legate al Covid, che hanno costretto la produzione a girare in location diverse e a risparmiare su ogni cosa, dai pennelli per il trucco agli oggetti di scena. Poi gli incidenti sul set: Patel si è perfino rotto una mano! Infine il dietro-front di Netflix, che avrebbe dovuto distribuire la pellicola in streaming. Il film è stato infatti giudicato troppo controverso per il pubblico indiano, abituato a titoli molto patriottici. È qui che è entrato in gioco Jordan Peele: innamoratosi del progetto, lo ha preso sotto la propria ala, suggerendo modifiche alla colonna sonora e aiutando a distribuirlo, grazie ai buoni rapporti tra la sua Monkeypaw Productions e Universal Pictures. Un caso che ad accomunare Patel e Peele ci sia la figura della scimmia? Magari sì, ma è affascinante: in entrambi i lavori degli autori queste figure diventano centrali (pensiamo allo scimpanzé Gordy di Nope). Gli animali sono infatti uno specchio di come trattiamo tutto ciò che non consideriamo umano.
E spesso questo trattamento da "non umani" lo riserviamo a molti nostri simili: neri, donne, poveri, persone di religione e orientamento sessuale differente. Peele racconta molto bene questa disparità di visione nel suo lavoro e, in una certa misura, anche Patel lo rappresenta, anche se Monkey Man è soprattutto un action movie pieno di sangue, fatto da chi questo genere lo ama. Accanto all'adrenalina però c'è anche dell'analisi sociale: la disparità tra poveri e ricchi nell'India che vediamo nell'esordio dell'attore è oscena. Così come l'utilizzo della religione per sedare i più disperati.
Nope, la recensione: Jordan Peele alla ricerca della sequenza perfetta
Nel raccontare questo, Patel mette in scena delle sequenze di combattimento crude e grezze, in cui tutto è sporco e spesso anche confuso, a dimostrare i tormenti interiori di un protagonista che all'inizio è mosso principalmente dalla rabbia e per questo incassa più colpi di quanti ne dia. Il regista sottolinea questo riempendo il film di superfici riflettenti: specchi, schegge di vetro, acquari, fiumi. Kid è frammentato in centinaia di immagini distorte, nessuna della quale ne rimanda la figura nella sua interezza. Soltanto quando trova un centro mette se stesso, e anche i suoi pugni, a fuoco.
Esagerato, ambizioso, spesso forse anche compiaciuto e smaccatamente a cavallo tra due mondi, quello del cinema di Bollywood, che rappresenta un recupero delle origini di Patel, e quello hollywoodiano, in cui è cresciuto e ha dimostrato di essere un ottimo interprete, Monkey Man è un incontro di mondi diversi apparentemente molto distanti, ma che invece dà vita a una pellicola vitale, piena di entusiasmo. Peele c'ha visto lungo: speriamo che non sia l'ultimo film diretto da Patel.
Conclusioni
Come scritto nella recensione di Monkey Man, l’esordio alla regia di Dev Patel, anche protagonista assoluto, è esagerato e ambizioso: un action movie che non nasconde riferimenti come Bruce Lee e John Wick, unendo il cinema di Bollywood a Hollywood. Il risultato è un film vitale e pieno di entusiasmo, dal ritmo serrato. Jordan Peele ne ha colto le potenzialità, aiutandone la distribuzione: speriamo non sia l’ultimo film diretto dall’attore.
Perché ci piace
- La forza vitale di un esordio pieno di entusiasmo.
- La presenza scenica di Dev Patel, che dimostra di poter essere anche un protagonista action.
- Il ritmo frenetico, sottolineato dalla colonna sonora.
- Le scene di combattimento crude e volutamente confuse, che rispecchiano la rabbia del protagonista.
- La critica sociale che si amalgama all’intrattenimento.
Cosa non va
- Come spesso capita nei primi film, Patel sovraccarica Monkey Man: ad alcuni potrebbe dare fastidio, per noi è un pregio.