L'importante è avere qualcosa da dire. E Francis Ford Coppola, con il suo mastodontico Megalopolis (tanto che sembra un'opera retro-futurista di Giovanni Pastrone), spiega quanto oggi sia indispensabile rintracciare i cardini sociali e politici, voltando verso una sostenibilità di pensiero che sia avulso dal populismo, e anzi agganciato ad una visione inclusiva e liberale. Sommerso dalla critiche, il film di Coppola, è invece un'opera particolarmente densa sul piano narrativo, nonché meritevole di essere vista anche solo per la straordinaria inquadratura finale che, di colpo, sottolinea il senso immaginifico del cinema.
Critiche spesso gratuite, e se vogliamo anche pre-condizionate e pre-giudiziali. Certo, la produzione, interrotta e poi ripresa, non ha aiutato, come non ha aiutato un budget schizzofrenico (tanto che il regista l'ha finanziato di tasca propria) o le sommesse polemiche che avrebbero visto un cast diviso sul set. Eppure, meglio di altri, il regista de Il padrino, a ottantacinque anni suonati, ha letteralmente cucito, pezzo dopo pezzo, la sintesi di cosa sia divenuto oggi l'impero democratico per eccellenza: gli Stati Uniti d'America.
Megalopolis: gli Stati Uniti come l'Impero Romano
Per certi versi, Megalopolis è insieme sia un'opera anti-America che pro-America. Un punto d'incontro, l'osservazione della vulnerabilità del Paese, rivista però tramite il fulcro parallelo che mette nello stesso insieme gli Stati Uniti con l'Impero Romano. New York, quindi, diventa New Rome. Al centro, intrighi politici e lotte di classe, con la plebe sempre più affamata e insofferente verso quei potenti che, costi quel che costi, si rifanno all'establishment per difendere il proprio status quo. Se pensiamo che lo script originale di Megalopolis risale addirittura al 1999, il film diventa addirittura premonitore: utilizzare la congiura di Catilina per tracciare un'idea di cosa siano diventati gli Stati Uniti odierni è quindi quanto di più visionario possa esserci. Di cosa parliamo? Molto in breve: un azzardato piano ordito da Lucio Sergio Catilina nel 63 a.C. di sovvertire l'ordine repubblicano dell'Impero Romano.
Dietro al film c'è infatti una perseveranza nel cercare un nuovo illuminismo, che possa partire dall'arte come mezzo assoluto, democratico e ugualitario. Qui entra in scena il protagonista, Cesar Catilina (Adam Driver), architetto con un'idea utopica: ricostruire New Rome seguendo un progetto ambizioso e vicino ai sogni dei cittadini. Un po' Elon Musk, un po' Jeff Bezos, ma anche un po' Robert Moses, controverso urbanista che ha rielaborato in chiave moderna alcune delle più famose infrastrutture di New York, favorendo però gli interessi politici.
Partendo da questo presupposto, Coppola immagina (e prevede) un'Impero democratico in crisi, e in rotta di collisione con i propri ideali. Cesar, per certi versi, diventa un puro, un'idealista, molto lontano dalla controparte politica, rappresentata dal sindaco Franklyn Cicero (Giancarlo Esposito) che, ai sogni del popolo, risponde con "il cemento e l'acciaio". Per stessa ammissione del regista, "Cesar è un Moses più illuminato, con l'obbiettivo di costruire una città che fosse migliore", e secondo le note di produzione, Cicero si rifarebbe ad Ed Koch, mayor nella New York degli anni Ottanta, reo di aver fallito nella lotta contro l'AIDS. Un'analogia che sfiora diversi punti in comune tra gli States e l'Antica Roma, culla delle repubbliche contemporanee.
In Megalopolis ci sono due grossi blocchi: Catilina che prova a "riallineare il concetto di democrazia tramite l'inclusione di ogni ceto sociale" e poi Cicero, "reazionario e spregiudicato". Al centro, il personaggio fondamentale di Julia (Nathalie Emmanuel), figlia del sindaco e innamorata dell'architetto: un personaggio moderno, vero spunto futuristico di una generazione che punta ad una visione che sia empatica, innovativa e democratica, abbandonando dogmi e tradizioni.
Francis Ford Coppola: "Dopo Megalopolis voglio fare altri due film"
Una favola attuale
Ma il tracollo degli Stati Uniti (e dell'Occidente tutto: basti pensare alla situazione politica francese, pronta a salassare i cittadini), ormai appurato e leggibile tanto nelle notizie quotidiane quanto nell'ispirazione artistica ormai omologata e misurata, per Francis Ford Coppola può essere scongiurato dagli ideali nobili, in contrapposizione con il populismo (e qui entra in scena il personaggio di Clodio aka Shia LaBeouf, avvicinabile a Donald Trump) e la polarizzazione (Cicero). Allora, una frase diventa emblematica in Megalopolis: "Come muore un impero? Muore quando la sua gente non ci crede più". Se l'implosione dell'America è, quindi, appurata, Coppola però punta ad un finale che possa in qualche modo sovvertire il concetto, offrendoci uno spunto inaspettatamente speranzoso e ottimistico, portandoci di nuovo a credere in quella terra promessa di libertà e uguaglianza.
Per questo il discorso conclusivo di Cesare è rilevante, convincendo "la folla" a sposare le sue prerogative, nonostante le profonde divisioni interne che hanno segnato le elezioni del 2020 e, ancora di più, quelle del 2024. Un ottimismo affatto banale, e rivelatorio di un altro tema cardine: l'arte come risposta all'avidità politica, inerte e arrogante. Quel senso artistico che, per Coppola, è stato terreno di battaglia, con cui si è spesso scontrato con le richieste invasive delle major, come avvenuto anche per Megalopolis. Ciononostante, e nonostante l'incomprensione post-uscita, Megalopolis ragiona con marcata lucidità sull'utopia come espressione di massima speranza, mettendo in risalto il pensiero dell'uomo come antidoto al potere e alla politica moderna.