Mank: ecco perché non è solo un film su Quarto Potere

Mank, il nuovo film di David Fincher, non è solo un film che racconta la creazione di Quarto Potere, ma un'esperienza audiovisiva che racconta una Hollywood che non è cambiata.

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Mank: un primo piano di Gary Oldman

Cosa distingue un ottimo film da un vero e proprio capolavoro? Se dovessimo parlare del film di Orson Welles la cui genesi viene raccontata in parte in Mank, il nuovo film di David Fincher disponibile su Netflix, parleremmo della regia inconsueta per il tempo, per il montaggio rivoluzionario, per il talento di Gregg Toland come direttore della fotografia che usa la profondità di campo come mezzo espressivo, per come Charles Forster Kane, il protagonista, sia una figura tipicamente americana, respingente, ma su cui lo spettatore riesce, soprattutto nel finale, a identificarsi, anche solo per poco. Lo sappiamo, ma fa bene ricordarlo: conta soprattutto la maniera in cui si narra una storia. Tutto ciò può fare la differenza ed è proprio in questi elementi che Quarto Potere non solo è un gran film, ma è anche una pietra miliare della storia del cinema.

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Mank: una scena del film con Gary Oldman

Parlando di Mank, se dovessimo riassumerlo solo come il racconto di come Herman J. Mankiewicz, talentuoso ma autodistruttivo sceneggiatore della Hollywood degli anni Trenta, abbia scritto il film di Welles, probabilmente lo riterremmo solo un ottimo biopic, perfettamente girato. Invece, l'errore che si può fare nel vedere il film di Fincher è considerarlo solo un film su Quarto Potere, perché la sceneggiatura del padre Jack Fincher e le scelte stilistiche del film riescono a raccontare molto altro: un periodo storico dove Hollywood sembrava diversa da quella che conosciamo, dove gli sceneggiatori lavoravano in gruppo e le star inondavano di luce propria i set, una Hollywood più conservatrice e meno inclusiva (il genio ventiquattrenne di Welles non è visto di buon occhio; il clima politico tende più verso i repubblicani). Di conseguenza, più che un film sulla nascita di un altro film, Mank diventa un ritratto agrodolce su un tempo perduto, la frammentazione dei ricordi del protagonista ha il sapore di una madeleine proustiana, e la parabola del protagonista diventa la parabola del cinema stesso.

Uno stile del passato

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Mank: Amanda Seyfried in una delle prime immagini del film Netflix

Fin dalla primissima immagine, Mank ci trasporta in un mondo-altro, di altri tempi. Il bianco e nero, i titoli di testa che richiamano un modo ormai "antiquato" di presentare un film, accompagnato dalla musica (davvero eccezionale nel corso del film) di Trent Reznor e Atticus Ross. E bastano le prime inquadrature per renderci conto che il film, di quegli anni, ne sta riproponendo anche lo stile e tutte le caratteristiche. La regia compie inquadrature precise, con un ritmo perfetto, poco dinamismo se non qualche carrello. Le immagini sembrano appartenere a quasi novant'anni fa: il bianco e nero scelto da Fincher e dal suo direttore della fotografia Erik Messerschmidt non è uno di quelli contrastati e contemporanei, ma uno della Hollywood del passato, dove i bianchi sono molto luminosi, i contorni più sfumati, i volti letteralmente brillano (soprattutto quello di Marion Davies interpretata da Amanda Seyfried). Non possiamo non sottolineare anche la cura per il sonoro e il ritmo dei dialoghi, aspetto fondamentale che però viene un po' a mancare nella versione doppiata, rompendo un po' quella magia che il regista intende ricreare: non solo i dialoghi hanno quel tempo musicale tipico dei film classici americani (soprattutto della screwball comedy), ma sono registrati - o lavorati in post produzione - in maniera tale da ricreare il suono, il rumore e il disturbo delle tecnologie dell'epoca. Il risultato è clamoroso ed è una sfida perfettamente vinta da Fincher. Guardare Mank non è solo il racconto di una storia, ma è l'ingresso nella Storia stessa.

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Un passato simile al presente

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Mank: una delle prime immagini del film Netflix

È la Hollywood dei grandi studios, quella raffigurata in Mank. Una Hollywood composta di talenti incredibili, un'industria di divi fuori e dentro lo schermo. Una Hollywood che, però, inizia a sentire della grande depressione e dove la parola d'onore inizia a valere sempre meno. Una Hollywood anche falsa, dove Louis Mayer definisce la MGM una grande famiglia e poi recita una farsa per far sì che le maestranze si riducano lo stipendio della metà. Non è una visione puramente nostalgica "dei bei tempi perduti", quella di Fincher in Mank. Anzi, il risultato è quello di un'industria americana solamente rappresentata in maniera superficialmente diversa (attraverso il bianco e nero, per esempio) ma che non sembra poi troppo distante da quella contemporanea. Lì è un ragazzo prodigio che viene visto come un pericolo per gli equilibri interni, oggi, invece, è la difficoltà nell'accettare donne o minoranze etniche in ruoli comunemente considerati per "uomini bianchi".

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Mank: una scena del film

In entrambi i casi la paura è sempre una sola, quella verso il futuro, verso il cambiamento, che prima o poi arriverà comunque. Ma è anche l'interesse di Hollywood nella politica: cambia solamente la tifoseria e l'appartenenza, ma ammettiamo che, durante la notte delle elezioni, sentire in un film i Repubblicani che festeggiano in anticipo e i Democratici che invitano a "contare ogni voto" non può che far provare uno strano brivido a noi spettatori che abbiamo, nel frattempo, assistito allo stesso teatrino durante le presidenziali del 2020. Brivido ancora maggiore se pensiamo che è proprio attraverso finti cine-giornali (il corrispettivo delle fake news, attualissime ancora oggi) che viene determinato il risultato della sfida elettorale.

"A nome di tutti i personaggi secondari"

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Mank: un'immagine tratta del film Netflix

Mank riesce a fare ancora di più dando voce a tutti i personaggi secondari dei film. Non solo quelli che, nell'economia del racconto, sono solo un vivace contorno alla vita dei protagonisti (e in questo caso, il suicidio di Shelly è uno dei momenti più forti e rivelatori per il nostro Mankiewicz), ma anche tutte le maestranze che lavorano nell'industria e che sono gli invisibili. Sembra un tema ininfluente e sorpassato, ma non è così. Nel film assistiamo ai primi germogli del sindacato degli sceneggiatori, per avere una paga più equa (anche se non manca il proverbiale sarcasmo di Mank a riguardo) e maggiori diritti (macchinisti ed elettricisti non possono sacrificare metà stipendio), ma in generale questi ruoli sono ancora oggi i più sacrificabili.

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Mank: Gary Oldman e Amanda Seyfried in una scena

Pensiamo al tentativo di qualche anno fa dell'Academy di destinare i premi Oscar per il sonoro o per la fotografia ai momenti degli spot televisivi per rendere la cerimonia più breve o, se pensiamo alla nostra industria, alle critiche verso la premiazione dei David di Donatello che non hanno lasciato lo spazio ai ringraziamenti per tutte quelle categorie che vengono ancora oggi ritenute "minori". Lo stesso Mank, nell'essere un talento vero ma senza quella caparbietà e serietà nell'affrontare il lavoro, è un reietto che, nel corso degli anni, perde il rispetto nell'industria. Scrivere American (cioè Quarto Potere) è l'occasione di rivincita, anche a costo di sacrificare la sua carriera futura. Parla di uno dei più grandi capolavori del cinema diretto da uno dei più grandi registi e scritto da uno dei più talentuosi sceneggiatori, eppure Mank sembra il racconto di intrusi, mine vaganti, personaggi secondari, scarti. O di suonatori di organetto costretti a vivere secondo i voleri di una scimmia.

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La magia del cinema

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Mank: Gary Oldman e Amanda Seyfried in una scena

Non abbiamo citato la madeleine di Proust, cioè quell'elemento che dà inizio alla valanga di ricordi de Alla ricerca del tempo perduto, a caso perché corrisponde nell'opera letteraria a quell'indescrivibile elemento magico che troviamo anche nel buio di una sala. È lo stesso Louis Mayer a descrivere la vera magia del cinema: il ricordo. Gli spettatori comprano qualcosa che però continuerà a non appartenere a loro. In altre parole, non compriamo il film, il vero oggetto che pensiamo di acquistare, ma il ricordo della visione di quel film. L'emozione che ci richiama un film passa attraverso la nostra memoria o, per meglio dire, è proprio la memoria che ci stimola a provare l'emozione. Che sia intellettuale, sentimentale o sessuale (ancora le schiette parole di Meyer), l'emozione è ciò che rende il cinema magico. Per emozionare occorre raccontare una storia che si conosce e per raccontarla al meglio bisogna che lo sceneggiatore sappia usare la penna con talento, anche perché - si sa - un bravo scrittore può essere più pericoloso di un politico. Ed è proprio qui che il talento di Mank si scontra con il potere di chi, invece, Hollywood la sta comprando tramite favori e simpatie politiche.

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Mank: una sequenza del film

Ed è proprio in un moto di orgoglio che Mank usa la penna per dar voce a un personaggio secondario, sé stesso, lottando persino con Welles che vorrebbe non riconoscergli, come da contratto, il nome nei crediti. Eppure è proprio attraverso questo viaggio nella memoria di Mank che Fincher stesso compie un viaggio nella memoria di Hollywood. Se poco è cambiato, allora la scrittura è perfetta: anche Fincher sta parlando di una storia che conosce. Il suo sguardo a prima vista algido e perfetto riesce a sprigionare un calore, la storia di Mank diventa la storia di una rivincita, lo stesso film scritto dal padre Jack (che, nonostante le riscritture, è l'unico a figurare nei crediti per la sceneggiatura) e prodotto da Netflix diventa una rivincita verso quello stesso sistema industriale che sta portando Fincher sempre più distante da Hollywood. Ne esce un film che racchiude il senso stesso del cinema, la vera magica essenza che travalica i confini del racconto passato e parla a un presente dove il cinema appare così distante, eppure così vivo.