L’uomo che vendette la sua pelle, la recensione: Se la libertà è un messaggio tatuato sulla pelle

La recensione de L'uomo che vendette la sua pelle: il film di Kaouther Ben Hania, al cinema dal 7 ottobre, è un film provocatorio, lucido e temerario, che mette insieme due mondi apparentemente inconciliabili come quello dell'arte e quello delle migrazioni.

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L'uomo che vendette la sua pelle: una foto del film

Siamo in una stanza bianca, fredda, asettica. Ci rendiamo presto conto che ci troviamo in una galleria d'arte, e gli addetti ai lavori, anch'essi di bianco vestiti, stanno portando un quadro. Una volta appeso, uno zoom e un primissimo piano ci fanno capire che quel quadro è dipinto sulla pelle umana. Inizia così il film che vi raccontiamo nella recensione de L'uomo che vendette la sua pelle, la sorprendente opera di Kaouther Ben Hania, in uscita al cinema dal 7 ottobre distribuito da Wanted. Candidato agli Oscar 2021 come Miglior film internazionale e vincitore del Premio Orizzonti per la miglior interpretazione maschile alla 77° Mostra del Cinema di Venezia, L'uomo che vendette la sua pelle è un film provocatorio, lucido e temerario, allo stesso tempo brutale e romantico. Mette insieme due mondi apparentemente inconciliabili come quello dell'arte e quello delle migrazioni per raccontarci una scomoda verità: se un essere umano nasce in una parte del mondo che è quella sbagliata, non ha possibilità di scelta, non ha alcuna libertà, a differenza degli altri. Kaouther Ben Hania ci racconta tutto questo con un'opera che è insieme un film di denuncia, un film romantico, un thriller dell'anima e una sorta di heist movie. Che nasce in parte da una storia vera: l'artista belga Wim Delvoye, tra il 2006 e il 2008, ha davvero creato un'opera d'arte vivente, Tim. Delvoye aveva tatuato la schiena di Tim Steiner che, nelle mostre a lui dedicate, stava seduto su una poltrona senza maglietta e mostrava il disegno dell'artista.

Un'opera d'arte vivente

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L'uomo che vendette la sua pelle: un momento del film

Sam Ali (Yahya Mahayni) è un giovane siriano che ha lasciato il suo Paese, dove era stato ingiustamente arrestato, per il Libano, per sfuggire agli orrori della guerra. Da lì non può muoversi, mentre Abeer (Dea Liane), la donna che ama, è rimasta in Siria, sta per sposarsi con un ambasciatore e partire per il Belgio. Sam Ali non ha alcuno modo per poter viaggiare in Europa e raggiungere il suo amore. Ma, in una galleria, conosce un artista, Jeffrey Godefroy (Koen De Bouw) e gli racconta la sua storia. "Ti serve un tappeto volante" dice l'artista. "Sei un genio?" risponde Sam Ali. Non è un genio, ma un artista provocatorio che gli propone di farsi tatuare sulla schiena un'immagine e trasformare il suo corpo in un'opera d'arte. Sulla schiena di Sam Ali così l'artista tatua in maniera minuziosa e perfetta l'immagine di un visto di Schengen. È proprio il documento che consente alle persone come Sam Ali di viaggiare e di avere salva la vita. È un documento agognato, ma che molti siriani, o altri profughi o migranti, non riescono ad avere. Quel tatuaggio non è un vero visto. Ma ha un effetto molto simile o anche più potente: in quanto opera d'arte vivente, Sam Ali potrà viaggiare in tutto il mondo.

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Il paradosso: la merce circola libera, le persone no

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L'uomo che vendette la sua pelle: un frame del film

Tutta la storia vive su un paradosso. È il fatto che, oggi la merce, e quindi un'opera d'arte, può circolare molto più liberamente rispetto alle persone. Così Sam Ali, che in quanto essere umano non è libero di spostarsi e di raggiungere l'Europa, come opera d'arte è libero di farlo. In realtà, lo scoprirà a sue spese, libero non lo è comunque. Perché firma un vero e proprio contratto che lo impegna ad essere periodicamente a disposizione e a portare la sua schiena, che è a tutti gli effetti un quadro, in ogni mostra in cui l'artista intende esibirla. Tutto questo darà vita a una serie di vicende - l'interazione dei visitatori con l'opera d'arte, le proteste dei gruppi che sostengono la causa siriana, i difetti del corpo che diventano difetti dell'opera - che montano altri paradossi su quello da cui è nato tutto. In un film iperbolico e astratto, ma che dentro di sé porta istanze concrete e terribilmente reali.

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L'uomo che vendette la sua pelle: una scena del film

Un film sui confini

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L'uomo che vendette la sua pelle: una scena

L'uomo che vendette la sua pelle è un film che parla di confini, di ogni tipo. I confini tra gli stati, quelle linee che le convenzioni tra gli uomini hanno tracciato e che, di fatto, minano alla base quello che dovrebbe essere un diritto naturale degli uomini, quello di spostarsi e scegliere liberamente cosa fare della propria esistenza. I confini che può avere l'arte, e i limiti che un artista può, o deve porsi, quando decide si sfidare l'opinione pubblica e provocare. E quindi i confini dell'etica, della morale, e anche della legalità. Il contratto tra l'artista e Sam Ali, pur non essendolo in maniera esplicita, è qualcosa che è molto vicino alla vendita del proprio corpo. E allora, tutto questo è legale? E, soprattutto, è morale? Ma, d'altro canto, è morale impedire a una persona di raggiungere il posto in cui intende stabilirsi?

Un film che pone tante domande

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L'uomo che vendette la sua pelle: una sequenza

Non capita spesso di uscire dalla visione di un film con così tante domande nella testa. E, soprattutto, di trovare un film che ponga delle domande, quando quasi tutti, ormai, tendono già a dare delle risposte, a fornirci già il messaggio preconfezionato e facile da capire. La provocazione dell'arista è, ovviamente filtrata attraverso il giusto distacco morale e artistico, quella del film. Un film che ci vuole, in fondo, dare uno schiaffo in faccia per svegliarci e metterci davanti a una verità che troppo spesso proviamo a non vedere. Nel mondo ci sono persone privilegiate ed altre dannate.

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L'uomo che vendette la sua pelle: una foto

Due mondi distanti

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L'uomo che vendette la sua pelle: una sequenza del film

Il messaggio della regista tunisina è ancora più forte proprio perché accosta due mondi che non potremmo mai immaginare nella stessa frase: l'arte contemporanea e i rifugiati. Uno è un mondo che vive di una libertà sfrenata e costruttiva, l'altro è la negazione stessa di questa parola, l'assenza totale di una minima possibilità di scelta. Dal contrasto tra questi due mondi nasce la scintilla che fa esplodere tutto. Nel film e nell'occhio, e la testa, di noi che stiamo guardando. La forma visiva del film non fa altro che assecondare questo contrasto, renderlo evidente, e a suo modo è una provocazione sopra alla provocazione. L'uomo che vendette la sua pelle mette in scena un contrasto tra un mondo elegante, patinato, estetizzante ai limiti dell'algido e dell'astratto, e immagini di povertà, di emarginazione, di esclusione. D'altra parte, per quanto riguarda l'arte e il corpo, costruisce un contesto intorno all'opera d'arte Sam Ali con una serie di altre opere d'arte che ritraggono corpi plastici.

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Una Monica Bellucci inedita

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L'uomo che vendette la sua pelle: Monica Bellucci in una scena

Tutto questo, ovviamente, non potrebbe prendere vita senza gli attori giusti. Yahya Mahayni, come detto Premio Orizzonti per la miglior interpretazione maschile alla 77° Mostra del Cinema di Venezia, offre un'interpretazione ironica e rabbiosa, fatta di orgoglio ferito, dolore, sprezzo del potere e delle convenzioni. Il suo Sam Ali è coraggio e sfida, è (guardate il sorprendente finale) beffa e dignità. Accanto a lui c'è Dea Liane, nei panni di Abeer, motore della storia e solo apparentemente semplice oggetto del desiderio passivo, in realtà personaggio molto complesso, che spicca per la dolcezza del volto e gli occhi chiari profondissimi, e ci ha ricordato la Olivia Magnani de Le conseguenze dell'amore. E poi c'è una sorprendente Monica Bellucci, nei panni di Soraya, una mercante d'arte decisiva nelle vicende di Sam Ali. È una Bellucci inedita, dai capelli biondi, pochissimo trucco sul volto e delle lievi rughe che cominciano a trasparire su quel volto bellissimo, dove ad essere in evidenza è la bocca. Soraya è un personaggio ambiguo e interessante: un po' fata, eppure cruda, disponibile ma anche fredda e brusca. Koen De Bouw, nei panni dell'artista, è ovviamente mefistofelico come il ruolo impone, ma anche lui non è quello che sembra. Denso di messaggi e contenuti, L'uomo che vendette la propria pelle è anche uno di quei film che, come nel cinema americano, vive di svolte, colpi di scena, suspense e tensione. È spettacolare e stimolante. Dopo la visione vi resterà impresso sulla pelle, come l'opera d'arte al centro del film.

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L'uomo che vendette la sua pelle: un'immagine del film

Conclusioni

Nella recensione de L'uomo che vendette la sua pelle vi abbiamo parlato di un film provocatorio, lucido e temerario, brutale e romantico. Che ci ribadisce che se un essere umano nasce in una parte del mondo che è quella sbagliata, non ha possibilità di scelta. Kaouther Ben Hania ci racconta tutto questo con un'opera che è insieme un film di denuncia, un film romantico, un thriller dell'anima e una sorta di heist movie.

Movieplayer.it
4.0/5
Voto medio
3.8/5

Perché ci piace

  • L'idea di costruire il film su un paradosso: le merci possono circolare e le persone no.
  • Il contrasto tra il mondo dell'arte e quello dei rifugiati, apparentemente inconciliabili.
  • La prova degli attori, tutti sorprendenti.

Cosa non va

  • Come qualsiasi provocazione è un film temerario: probabile che si ami o si odi.