Scrivere la recensione di Leap of Faith, documentario presentato a Venezia 76 nella sezione Venezia Classici, è un'attività particolarmente piacevole perché ci riporta col pensiero a quella pietra miliare del cinema che è L'esorcista e alle splendide doti da raconteur del suo regista, William Friedkin, che proprio al Lido, nel 2018, era stato protagonista di un ritratto più generico sulla sua carriera complessiva, Friedkin Uncut. Questa volta, nelle abili mani del documentarista svizzero Alexandre O. Philippe, ci si concentra su un film solo, quello che ha cambiato il cinema horror quasi cinque decenni fa e ancora oggi terrorizza gli spettatori. Un capolavoro che, al netto di vari sequel, prequel e spin-off televisivi che non hanno particolarmente lasciato il segno, non ha perso nulla della sua forza viscerale, legata principalmente al credo di Friedkin secondo il quale tutto doveva essere il più verosimile possibile.
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La filmografia di Alexandre O. Philippe, specializzato in documentari sul cinema, è notevole per le differenze di approccio da un progetto all'altro: il cineasta si è fatto notare per la prima volta con The People vs. George Lucas, che analizza il fenomeno di Star Wars attraverso il rapporto, non sempre roseo, tra il franchise e i suoi fan; due anni fa è toccato a Psycho, analizzato in 78/52 tramite un punto di vista molto particolare, focalizzandosi esclusivamente sulla scena della doccia, con interventi di vari esperti in campo horror e cinematografico che analizzano tutti gli aspetti di quella sequenza (il film, ovviamente, è rigorosamente in bianco e nero); e prima di darsi alla genesi de L'esorcista il regista si è dedicato ad Alien, esaminandone le influenze di stampo mitologico (ma all'inizio doveva essere un'operazione simile al documentario precedente, analizzando nel dettaglio la scena del chestburster). Ora tocca al capolavoro del 1973, rivisitato dall'uomo che portò sullo schermo il romanzo di William Peter Blatty. Solo da lui, per 105 minuti: fatta eccezione per spezzoni tratti dal film stesso e sporadici interventi fuori campo di Philippe, l'unica voce che sentiamo è quella di Friedkin.
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La forza del progetto sta proprio lì, nelle doti oratorie di William Friedkin, cineasta nato a Chicago, la cui passione non si è affievolita con l'età, al punto che in certi momenti della conversazione si scalda quando ricorda determinati eventi, come i tentativi fallimentari di trovare un compositore per il film (la cosa gli costò la sua amicizia con Lalo Schifrin, e ci fu anche una differenza d'opinione con Bernard Herrmann, il che si ricollega a un episodio analogo per 2001: Odissea nello spazio, di cui vediamo un raro estratto con la colonna sonora di Alex North che Kubrick, per ovvi motivi, scartò. Friedkin si esprime senza peli sulla lingua, partendo dalla sua opinione che ai tempi i film sul tema fideistico fossero poco validi (l'unica eccezione per lui è Ordet - La parola di Dreyer) e arrivando a descrivere le varie influenze musicali e pittoriche che hanno dato vita a inquadrature come quella iconica di Max von Sydow che arriva a casa della famiglia tormentata dal demonio. Ricorda con gioia (quasi) tutti gli aspetti della produzione, incluso il fatto che, prima che la voce fosse appositamente ridoppiata da Mercedes McCambridge, tutte le oscenità che escono dalla bocca di Regan posseduta furono veramente dette da Linda Blair, con tanto di spezzoni a sostegno.
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Una questione spirituale
Chi ha letto l'autobiografia del cineasta, o altri tomi dedicati al film, probabilmente sa già tutto ciò che viene raccontato nel documentario, il cui centro di interesse sta non tanto nell'andare a scovare informazioni inedite (anche se qualche chicca come quelle citate prima salta fuori), ma nel sentire gli innumerevoli aneddoti di Friedkin, il cui rapporto con il suo capolavoro del brivido è indubbiamente personale: è commovente quando evoca il fatto che lui e il compianto Blatty fossero accomunati da una grande devozione nei confronti delle rispettive madri, il che spiega l'importanza del rapporto tra genitori e figli nel film stesso, ed esilarante quando racconta le sue interazioni con chi dubitava delle sue scelte creative (Herrmann gli consigliò di tagliare il prologo ambientato in Iraq).
Poi però si palesano i suoi, di dubbi, e lì si chiarisce l'origine del titolo del documentario: il leap of faith, il salto di fede, in senso letterale si riferisce al finale tragico del film, ma è anche il rapporto ambivalente che lo stesso Friedkin, dopo averne discusso con Blatty, continua ad avere con quel finale. "Non capisco la fine del film", dice il cineasta, alludendo alle contraddizioni teologiche e spirituali che il pubblico, invece, sembra aver accettato senza farsi troppe domande. Friedkin, con quel film, ha fatto il proprio salto, e sentirlo parlare di quell'esperienza, nel bene e nel male, conferma la saggezza di quel gesto cinematografico coraggioso che non ha finito di generare notti insonni.
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Conclusioni
Arrivati alla fine della nostra recensione di Leap of Faith ci sentiamo arricchiti, avendo passato 105 minuti ad ascoltare un grande regista le cui parole non hanno perso la loro potenza, così come non l'ha persa il film evocato, una pietra miliare del cinema che qui acquista una nuova ricchezza tramite i ricordi personali e schietti di colui che, quasi cinque decenni fa, trovò un modo nuovo per spaventare il pubblico.
Perché ci piace
- La decisione di intervistare solo William Friedkin è un lampo di genio.
- I retroscena di un capolavoro dell'horror sono tutti molto interessanti.
- Il materiale d'archivio è usato in modo sorprendente.
Cosa non va
- Chi è in cerca di rivelazioni completamente inedite potrebbe rimanere deluso.