Recensione State of Play (2009)

Thriller un po' farraginoso ma non privo di spunti interessanti, con un agguerrito staff di giornalisti pronto a sostituirsi alla polizia, nelle investigazioni che porteranno a far luce su un grosso scandalo politico.

Le verità insabbiate

Non si può certo dire che State of Play sia nato sotto una buona stella. Anzi, con un briciolo di cattiveria, si potrebbe tranquillamente affermare che la pellicola prodotta dalla Universal Pictures e diretta dallo scozzese Kevin Macdonald sia nata del segno della rinuncia. La rinuncia a Brad Pitt, innanzitutto. Dopo gli incontri preliminari programmati in prossimità delle riprese è stato il divo americano, presumibilmente per divergenze artistiche col regista, ad abbandonare il cast, innescando con la sua decisione una specie di "effetto domino": anche Edward Norton, appoggiandosi al fatto che il conseguente ritardo della produzione (impegnata nella ricerca di un nuovo protagonista) avrebbe ostacolato la sua partecipazione ad un altro progetto cinematografico, ne ha approfittato per chiamarsi fuori. I due attori sono stati pertanto rimpiazzati da Russel Crowe e Ben Affleck, sicché, almeno nel secondo caso, imbarazzante è il paragone con quanto di ambiguo avrebbe potuto esprimere Edward Norton, accettando di interpretare il giovane e arrembante politico coinvolto nello scandalo; una prerogativa del personaggio destinata ovviamente ad affievolirsi nello sguardo imbalsamato di Ben Affleck, capace di darsi un tono solo alzando la voce e regalando di tanto in tanto qualche isterismo a buon mercato. Del resto ora che abbiamo potuto confrontarci col film, thriller dalle notevoli potenzialità diretto però con mano pesante, svogliata, fondamentalmente anonima, ci risulta ancora più facile dare ragione agli assenti.

Eppure l'intrigo posto al centro della pellicola, che si ispira direttamente a una miniserie TV della BBC, offre una serie di spunti non così banali, anche grazie all'apporto in fase di sceneggiatura degli specialisti di plot a carattere politico/finanziario Matthew Michael Carnahan (suoi i soggetti di The Kingdom e Leoni per agnelli), Peter Morgan (sceneggiatore di Frost/Nixon - Il duello, L'ultimo re di scozia e The Queen - La Regina), più il lanciatissimo Tony Gilroy; ovvero mister Duplicity & Michael Clayton, volendo restringere il parco citazioni alle opere più recenti, di cui l'autore ha firmato anche la regia.
Lo scandalo cui prima si faceva riferimento è quello che colpisce Stephen Collins (Ben Affleck), membro in forte ascesa del Congresso degli Stati Uniti, proprio mentre costui ha la responsabilità di un comitato preposto a monitorare le spese della Difesa. Quando una sua assistente e probabile amante viene uccisa in circostanze misteriose, mettendo a rischio la carriera stessa di Collins, una complessa indagine si sviluppa a ridosso di questo e di altri omicidi che appaiono correlati. Ma non è soltanto la polizia a farsene carico. Un disincantato reporter, quel Cal McCaffrey (Russel Crowe) che ha fatto del giornalismo investigativo il suo cavallo di battaglia, cerca pertanto di conciliare la vecchia e traballante amicizia con Collins col desiderio di far luce sugli aspetti più sporchi della vicenda. Conoscendone i modi bruschi e poco convenzionali l'acidissima Cameron (Helen Mirren), caporedattrice del giornale per cui lavora, ha pensato bene di affiancargli una giornalista giovane e di gran lunga più disciplinata, Della (Rachel McAdams), affinché raccolgano insieme il materiale per l'articolo. Quasi superfluo aggiungere che tra loro si svilupperà un rapporto non privo di contrasti, mentre dal passato di Collins continueranno ad affiorare tracce inquietanti...

L'aspetto più stimolante della rilettura del genere operata in State of Play è proprio l'intersecarsi dell'indagine poliziesca con quella giornalistica, una sovrapposizione continua per cui il ruolo dei poliziotti assume sempre meno rilievo nel plot rispetto alle investigazioni condotte dalla stampa, col modus operandi dello staff di giornalisti che tende a ricalcare diversi stilemi della detective story. Basti pensare al rapporto tra il navigato McCaffrey, abituato a muoversi da solo, e la giornalista fresca di studi affiancatagli dal suo superiore: in questo schema triangolare viene spontaneo individuare la parafrasi del difficile dialogo tra l'agente con molta esperienza, che non ama lavorare in coppia, il "novellino" che vorrebbe mettersi in luce, accettato a malincuore dall'altro come partner, e l'ufficiale di polizia che facendoli lavorare insieme vorrebbe avere sempre la situazione sotto controllo.
Un'eco ulteriore del triangolo appena abbozzato sussiste, a nostro avviso, nelle (pur riarrangiate) scelte di casting, ovvero in quella particolare impronta vocale degli interpreti che ci spinge tra l'altro a consigliare una visione di State of Play in lingua originale: da un lato l'accento ruvido e il tono di voce fermo, caldo, di un Russel Crowe senz'altro adatto al ruolo, le cui affermazioni perentorie si confrontano dialetticamente con la vocetta dal tono stridulo di Rachel Adams, la giovane collega, e col timbro roco di un'ironica e spesso sgarbata Helen Mirren, in assoluto la più convincente nel ruolo dell'attempata caporedattrice. Detto questo, la struttura narrativa cui abbiamo fatto riferimento è riprodotta nella pellicola di Macdonald con un taglio piuttosto meccanicistico e superficiale, tant'è che gli stessi personaggi secondari (partendo dagli agenti di polizia e dai politici del Congresso, per arrivare alla figura del gelido sicario le cui posture ricordano quasi un Michael Myers o altre figure del cinema horror) rivelano uno spessore minimo.

Il limite maggiore del thriller diretto da Macdonald risiede però in uno stile di regia incredibilmente piatto, para-televisivo, prolisso ogniqualvolta si tratti di enfatizzare i tempi morti o qualche dialogo di discutibile importanza. Due o tre scene di cruda e improvvisa violenza, nella totale assenza di ritmo imputabile a una partitura in cui la suspance ristagna, riescono a creare per un attimo quella tensione, destinata troppo presto a svanire. E così ci troviamo ancora una volta faccia a faccia con l'enigma dell'eclettico regista britannico, molto attivo in televisione, capace di incuriosirci con documentari su argomenti scomodi (Il nemico del mio nemico - Cia, nazisti e guerra fredda), mai però del tutto convincente qualora si lanci ad esplorare i territori della fiction cinematografica, come dimostrato in precedenza da L'ultimo re di scozia.