Adesso sono diventato Morte, il distruttore di mondi. (J. Robert Oppenheimer)
Non stavo prestando attenzione... ero occupato a pensare a come uccidere tutte le persone nella stanza. (Rudolf Höss)
Fra le inquadrature più utilizzate da Christopher Nolan in Oppenheimer ci sono i primissimi piani: in molteplici occasioni la macchina da presa si accosta al volto diafano di Cillian Murphy, fin quasi a fargli riempire lo schermo e focalizzando l'attenzione del pubblico sugli occhi del protagonista. In un film la cui ossatura narrativa è imperniata in misura così ampia sui dialoghi, ben più che negli altri film di Nolan, è un significativo paradosso che il personaggio di J. Robert Oppenheimer si esprima soprattutto mediante il proprio sguardo. È un approccio assai differente, al contrario, quello della regia di Jonathan Glazer: La zona d'interesse è costruito in netta prevalenza su campi medi e campi larghi, che permettono alla macchina da presa di inglobare tutto lo spazio degli ambienti domestici della residenza della famiglia Höss e del cortile intorno alla loro villa, inclusa la barriera che li separa dal campo di concentramento di Auschwitz.
I distinti stili adottati dai due registi britannici sono strettamente correlati alla natura, per certi versi opposta, di due fra le opere più acclamate uscite nel corso del 2023 e attualmente in competizione agli Academy Award. Oppenheimer, realizzato da Christopher Nolan sulla base della biografia scritta da Kai Bird e Martin J. Sherwin, American Prometheus, ha registrato novanta milioni di spettatori nelle sale ed è stato il dominatore incontrastato di questa stagione dei premi, con cinque Golden Globe e sette BAFTA Award, tra cui miglior film, e tredici nomination agli Oscar. La zona d'interesse, adattato da Jonathan Glazer dall'omonimo romanzo di Martin Amis (che funge unicamente da spunto di partenza), ha ricevuto il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes, tre BAFTA Award e cinque nomination agli Oscar, ipotecando il trofeo come miglior film internazionale. Si tratta, come accennato, di due titoli molto diversi, frutti di due idee di cinema agli antipodi, ma che tuttavia risultano intimamente interconnessi.
La zona d'interesse, la recensione: l'orrore di un'inconcepibile normalità
Due grandi film sulla natura tragica del Novecento
Il legame fra le due pellicole non si limita all'ambientazione: La zona d'interesse si svolge nell'arco di poche giornate nel 1943, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, conflitto che funge da baricentro cronologico all'interno della più complessa struttura temporale di Oppenheimer, sviluppato lungo un periodo di oltre tre decenni secondo un meccanismo di analessi e prolessi. I film di Glazer e di Nolan si focalizzano su due specifici aspetti della guerra: l'applicazione della "soluzione finale", ovvero lo sterminio di milioni di ebrei nei campi di concentramento, e la fabbricazione dell'ordigno che, nell'agosto del 1945, avrebbe raso al suolo le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. Due tragedie spaventose, messe in atto dai due fronti rivali nell'alveo di una tragedia di proporzioni incalcolabili, e la cui eco si riverbera fino alla nostra epoca: dallo spettro di un olocausto nucleare, leitmotiv di tutta la Guerra Fredda, ai genocidi che si consumano a varie latitudini, ieri e oggi.
Pertanto, come spesso accade con le grandi opere, Oppenheimer e La zona d'interesse aprono una finestra sul passato per parlare anche al nostro presente, servendosi della Storia come strumento di un'indagine, politica ed etica, sull'essere umano e sulle dinamiche della società contemporanea. Ed entrambi, al di là del rispettivo valore artistico e dell'attribuzione dell'appellativo di capolavori, sono riusciti a intercettare in misura sorprendente la sensibilità del pubblico, pur offrendo due prospettive sull'orrore che non potrebbero essere più distanti l'una dall'altra. Definito a più riprese (e con una certa superficialità) come un cineasta freddo e cerebrale, Christopher Nolan è piuttosto il portavoce di un umanesimo che trapela da gran parte dei suoi film: film da cui traspare una profonda vicinanza emotiva ai personaggi, e in cui i codici della fantascienza, del thriller e dell'action movie - da The Prestige a Inception a Interstellar - vengono sempre messi al servizio del "fattore umano".
Oppenheimer, la recensione: Christopher Nolan e il sontuoso ritratto del padre dell'atomica
L'iperrealismo di Glazer e il pathos di Nolan
Jonathan Glazer è invece un autore meno facilmente definibile, a partire dal fatto che dall'esordio nel 2000 con Sexy Beast, sulla scia di un pulp grottesco semi-tarantiniano, ha diretto solo altri tre lungometraggi, fra cui il cupo dramma psicologico Birth e uno sci-fi anomalo e incatalogabile quale Under the Skin. Ne La zona d'interesse, lo stile dominante è l'iperrealismo con cui Glazer mette in scena la routine della famiglia di Rudolf Höss (Christian Friedel): il lavoro organizzativo del comandante in capo del campo di Auschwitz, improntato a un pragmatismo da asettico burocrate, tale da renderlo un comune epigono di Adolf Eichmann e del suo modello della "banalità del male"; ma anche la gestione domestica condotta con un misto di orgoglio e arroganza da sua moglie Hedwig (Sandra Hüller) e l'innocente (?) vivacità dei figli della coppia. Lo sguardo di Glazer è, almeno in parte, quello dell'entomologo: il rigore della rappresentazione punta a un'oggettività radicale, lasciando a noi spettatori l'onere del giudizio.
In Oppenheimer si coniugano due istanze fondamentali del cinema di Christopher Nolan. La prima è l'enfasi che, come in un melodramma ben orchestrato, scandisce le varie fasi del racconto, ovviamente con le opportune variazioni di intensità, ma evidenziando gli stati emotivi del protagonista attraverso le musiche di Ludwig Göransson e la fotografia di Hoyte van Hoytema, in cui i cambiamenti della focalizzazione sono contrassegnati dal passaggio dal colore al bianco e nero. La seconda è l'empatia per una figura il cui anelito all'eroismo si accompagna a un dissidio morale difficilmente sanabile: se in Bruce Wayne si agitava il conflitto fra le nobili intenzioni del cavaliere oscuro e le possibili, nefaste derive, nel J. Robert Oppenheimer interpretato da Cillian Murphy avvertiamo il tormento di uno scienziato che si imbarca nel Progetto Manhattan per salvare il mondo dal nazifascismo, ma è contagiato dall'atroce sospetto di aver contribuito alla sua distruzione. "Mi sento le mani sporche di sangue", dichiarerà al cospetto di Harry Truman, come una Lady Macbeth in preda al suo delirio da sonnambula.
La zona d'interesse: Jonathan Glazer e l'orrore oltre la siepe
Oppenheimer e Höss: il senso di colpa e la morte dentro
Se dunque Oppenheimer è uno straordinario film sul senso di colpa, un senso di colpa al contempo individuale, collettivo e storico, di contro La zona d'interesse è un film, altrettanto straordinario, sul silenzio della coscienza e la rimozione del senso di colpa: la rimozione individuale dei componenti della famiglia Höss, ma altresì la rimozione collettiva della Germania e degli altri paesi in cui aveva attecchito il virus del totalitarismo. "Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è - la proprietà della tentazione", scriveva Hannah Arendt nella propria ricostruzione del processo Eichmann; "Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente, dovettero esser tentati di non uccidere, non rubare, non mandare a morire i loro vicini di casa [...]; e dovettero esser tentati di non trarre vantaggi da questi crimini e divenirne complici. Ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni". Un ritratto perfetto della famiglia al centro dell'opera di Jonathan Glazer.
C'è un momento, però, in cui il distacco fra noi e lo schermo si attenua, o perlomeno in cui il realismo del film viene incrinato da una frattura improvvisa: una frattura dall'essenza quasi onirica, che si apre laddove, nel finale, Rudolf Höss scende le scale di un ufficio di Berlino, dopo aver discusso con altri funzionari nazisti i dettagli della deportazione di massa di oltre mezzo milione di ebrei. Già poco prima, nella telefonata alla moglie, l'impassibilità di Höss era sembrata incresparsi, ma ora di fronte a lui ecco spalancarsi l'abisso, che assume i contorni di un lungo corridoio diretto verso le tenebre. I rimorsi di Oppenheimer li leggiamo negli occhi dell'uomo, inquadrati in primissimo piano; la cinepresa di Glazer, invece, continua a mantenersi a debita distanza da Höss, e nulla può farci presumere una qualche forma di pentimento. Quel che ci suggerisce, in compenso, è la consapevolezza mostruosa dell'abisso: nel vomito incontenibile di un aguzzino che ha respirato - letteralmente! - i resti delle proprie vittime, e che forse avverte per la prima volta la morte dentro di sé, mentre si accinge ad essere inghiottito da un'oscurità senza fine.