Recensione Viola di mare (2008)

Storia di un amore lesbico che sfida le delimitate strutture patriarcali nella Sicilia risorgimentale, 'Viola di mare' si ritaglia uno spazio nel cinema italiano al femminile avvalendosi della brava Valeria Solarino.

La siciliana ribelle

Feuilleton siciliano che cattura da uno sguardo femminile, quello di Donatella Maiorca (Viol@), un microcosmo sessuato negato da una rigida società patriarcale e isolana, Viola di mare, trasposizione cinematografica del libro di Giacomo Pilati Minchia di Re (Mursia), si preannunciava come un film delicato su una tematica scabrosa, ma ha presto smesso le vesti delle riverenti apparenze per riformularsi come affresco àtono e rettilineo.

La protagonista indiscussa del melò è Angela, una siciliana che sfida le precostituite architetture familiari dell'isola di Favignana: fin da piccola disobbedisce al dispotico padre, curatolo delle cave di tufo di Cala di Tramontana, rispettato da pochi e temuto da molti, ma è da donna che rompe il già fragile equilibrio del suo focolare domestico. Angela viene infatti data in sposa a Ventura, ma non esita a rifiutare il matrimonio combinato dal padre-padrone e a dichiarare il suo amore omosessuale per l'amica d'infanzia Sara. Le due riusciranno a coronare il loro coraggioso sogno d'amore, ostacolato e consunto dai pregiudizi popolani e dalle sofferenze femminili.
La regista Donatella Maiorca firma un film che strizza l'occhio al pubblico maschile, con insistite sequenze di amore pruriginoso, emanato dai corpi scolpiti delle attrici protagoniste, Valeria Solarino e Isabella Ragonese, e piace meno a quello femminile. Nessuna immagine poetica sembra infatti accompagnare l'amor fou delle due donne se non quella estetica, prettamente legata al paesaggio siculo, fotografato come una congiunzione tra cielo e mare in cui il colore e la limpidezza si con-fondono prima della battigia mentre il tufo bianco delle casupole, che ricorda Kaos dei fratelli Taviani, funziona come cassa di risonanza alla geografia isolana.
Una voluttà morbosa grava sulla narrazione, leggermente intiepidita da un ritmo compassato e da una colonna sonora che condensa i toni del thriller, mentre numerose sequenze sono accostate a dialoghi poco originali, grotteschi travestitismi e incontri fisici offerti con un certo voyeurismo. Le stesse inquadrature sembrano a volte spiare i personaggi con i loro movimenti incerti come per rendere ambigui i protagonisti, che restano comunque delineati seccamente.
Le ombre più interessanti sono invece attribuite ai personaggi secondari, suor Agnese (Maria Grazia Cucinotta) e il parroco del paese, in particolare, che però presto si ritrovano costretti nelle storie collaterali, compromesse da reiterati cliché sui peccati carnali clericali, sbilanciate dalla morale cattolica delle pittoresche processioni tra le zite e i timorati del Signore. A sottrarre solidità alla messa in scena anche i colori risorgimentali, disseminati con ostentazione, che non contestualizzano la Storia nel film, ma sembrano edulcorarlo solo nell'aspetto visivo.
Suggestiva la metafora del pesce ermafrodita che dà il titolo alla pellicola e viene utilizzata per restituire una purezza immaginifica a una storia dal potenziale narrativo svincolato dal genere. Intensa l'interpretazione della bravissima Valeria Solarino, che conferma la sua bravura e si cala nel ruolo saffico senza ammiccamenti superflui ma con una malizia gradevole e con una femminilità evidente perfino nella versione en travesti.