But ev'rybody wants some/ I want some too/ Ev'rybody wants some/ Baby, how 'bout you?
Oltre vent'anni fa, nel 1993, un Richard Linklater poco più che trentenne prendeva in prestito il titolo di un brano di Jake Holmes del 1967, Dazed and Confused, reso celebre poco più tardi dai Led Zeppelin grazie al loro disco d'esordio. Dazed and Confused, rititolato in Italia La vita è un sogno, si sarebbe rivelato il primo, benché modesto successo nella filmografia di Linklater, un successo alimentato da una statura di cult movie acquisita nel corso degli anni (nel frattempo, il cineasta texano si guadagnava nuove legioni di fan grazie all'ormai mitologico Prima dell'alba).
Ora, reduce dalla pioggia di consensi e di riconoscimenti per Boyhood, Linklater va a pescare nel canzoniere dei Van Halen, vale a dire la rock band americana con il maggior numero di dischi venduti negli anni Ottanta e dintorni, intitolando Everybody Wants Some!! (dall'omonima canzone dell'album del 1980 Women and Children First) il suo nuovo film, Tutti vogliono qualcosa, definito non a caso dal regista come un "sequel spirituale" di quel primo racconto di formazione datato 1993 e ambientato invece nel 1976 (con inevitabili echi autobiografici e relativi rimandi culturali).
The last days of disco
Da un film all'altro, passano gli anni e cambia anche la musica: l'ultima, gloriosa stagione della disco (e nella soundtrack spiccano Donna Summer, Chic, Kool & the Gang, Jermaine Jackson), ma anche l'apogeo del punk e della new wave (Cars, Blondie, Pat Benatar, Devo), i primi esperimenti di hip hop (Rapper's Delight dei Sugarhill Gang, cantata in coro dai personaggi in automobile in una delle sequenze iniziali, ma soprattutto non perdetevi la canzone sul finire dei titoli di coda) e il revival di un rock declinato però in chiave più 'radiofonica' e commerciale (Queen, Dire Straits, Van Halen, Foreigner, ZZ Top, Cheap Trick, Knack). Tutti vogliono qualcosa è ambientato infatti nell'autunno del 1980, ovvero all'alba di un nuovo decennio - quegli Eighties che sarebbero poi stati sbrigativamente etichettati come il periodo del disimpegno e dell'edonismo - e, in una dimensione individuale, al principio di una nuova fase nella vita del protagonista.
Jake, biondo, atletico, bello e sorridente, con il volto da perfetto golden boy del ventitreenne Blake Jenner (pescato dal cast della serie Glee), è in procinto di cominciare il college grazie a una borsa di studio per meriti sportivi, e nel venerdì che apre il suo ultimo weekend di vacanza approda nel dormitorio in cui risiederà insieme agli altri membri della propria squadra di baseball. Se La vita è un sogno concentrava desideri, conflitti e passioni dei suoi liceali nell'arco di una singola giornata, Tutti vogliono qualcosa esplora invece un fine settimana di un manipolo di universitari alle prese con serate in discoteca, party (più o meno) selvaggi, svagatissimo ozio, allenamenti, bevute, spinelli, conquiste amorose e timidi corteggiamenti. Attorno ad un'ossatura drammaturgica volutamente esile, Linklater torna quindi a filmare la vita nel suo quotidiano divenire, nell'apparente banalità di "momenti qualunque" a cui il regista americano non manca però di conferire significato. Non con un atteggiamento distaccato da antropologo interessato ai costumi sociali, ma secondo un approccio inclusivo che trasporta lo spettatore accanto ai personaggi (notare in proposito come la macchina da presa sia posta sempre all'altezza degli attori).
Talkin' 'bout my generation
Personaggi, quelli di Tutti vogliono qualcosa, per i quali il campus e le location limitrofe (pub, night club, laghetti e sponde erbose) si offrono come il teatro di un baccanale no stop, e in cui una ricchissima colonna sonora - altro fondamentale elemento di empatia - scandisce il ritmo di questa giostra incessante: un loop di abiti, di colori, di battute, di scherzi, di risse sfiorate e di colpi di fulmine, attraverso cui Linklater sembra suggerire l'horror vacui di una generazione per la quale questo vitalismo senza freni si propone come l'unico antidoto alle ansie dell'età adulta. Un'età adulta respinta in maniera pressoché totale: le uniche presenze 'autoritarie', l'allenatore della squadra e il professore di lettere, compaiono solo in apertura e in chiusura della pellicola (e le raccomandazioni del coach saranno puntualmente ignorate); qualunque forma di maturità e di responsabilità è annegata in una goliardia ancora adolescenziale e di genuina naïveté; mentre risulta emblematica la figura di Willoughby (Wyatt Russell), lo studente senior che quell'età adulta l'ha rinnegata in toto, e attorno al quale si riuniscono gli altri ragazzi per fumare erba e perdersi nella linea di basso di Roger Waters e nella voce di David Gilmour in Fearless (notare bene: l'album dei Pink Floyd Meddle risale al 1971, un'epoca ormai anacronistica e superata per i ventenni del 1980).
Qual è, dunque, la gioventù dipinta in Tutti vogliono qualcosa? Tutti troppo bellocci e wasp per rendere il film un documento davvero realistico, Jake e i suoi compagni corrispondono a un immaginario ben preciso sugli All American Boys a cavallo fra Settanta e Ottanta. Un immaginario che Linklater rielabora non per adagiarsi sugli stereotipi del caso, ma per conferire al racconto un'aura di soffusa nostalgia, unita ad un'affettuosa partecipazione per i suoi protagonisti. È questo, al contempo, il pregio ma in un certo senso anche il limite del film di Linklater: la sua natura di opera lieve ed effimera, perché il soggetto della narrazione è appunto la leggerezza e l'effimero, strumenti volti ad esorcizzare e dissipare qualunque traccia di malessere. È il motivo per cui a Tutti vogliono qualcosa mancano la profondità di sguardo e l'intensità emotiva di Boyhood o della trilogia di Jesse e Céline: questi atleti goliardici e donnaioli si limitano ad accarezzare la superficie delle cose, a restare aggrappati ad illusioni sottoforma di superstiziosi rituali (il fantomatico talent scout che li starebbe scrutando di nascosto fin dal primo allenamento, nelle sembianze di un muratore).
E allora, non sorprende che le sequenze migliori della pellicola rimangano i dialoghi più significativi di Jake con l'arguto e loquace Finnegan (Glen Powell), il "Mercuzio" del gruppo (come sempre, la densità celata dietro l'ironia), e le tappe del romantico flirt fra Jake e Beverly (Zoey Deutch), graziosa studentessa di arti performative che alle pareti della sua stanza tiene appesi i poster di Joni Mitchell e Patti Smith (un dettaglio tutt'altro che casuale): per la prima volta nel film assistiamo allo sbocciare di un reale sentimento, destinato però a restare confinato nello spazio di una domenica e di un lunedì mattina. Il risveglio, le prime ore del giorno e l'inizio delle lezioni segneranno forse (o forse no?) un altro percorso da intraprendere, una più ampia consapevolezza da acquisire, in quell'eterna avventura messa in scena da Linklater - dai suoi esordi fino al viaggio ultradecennale di Boyhood - che consiste nella ricerca di se stessi e del proprio posto del mondo. Tenendo a mente, se possibile, che "frontiers are where you find them".
Movieplayer.it
3.5/5