Nel 2010 Patricio Guzmán realizzò Nostalgia della luce, documentario presentato fuori concorso al Festival di Cannes con il quale, partendo dal deserto dell'Acatama, dove sono situati i telescopi più potenti del mondo, univa le ricerche degli scienziati e archeologi a quelle dei familiari dei desaparecidos cileni. Primo capitolo di un dittico al quale si è andato ad aggiungere, nel 2015, La memoria dell'acqua, Orso d'Argento a Berlino65 per la migliore sceneggiatura e vincitore del premio della giuria ecumenica.
Opera che ritorna ancora una volta su un tema, quello del Golpe militare del 1973 che instaurò la dittatura di Pinochet, sviscerato dal cineasta nel corso della sua intera carriera, lui che proprio nell'anno della salita al potere del militare venne imprigionato per due settimane nello stadio di Santiago con l'accusa di appartenere a schieramenti politici non in linea con quelli rappresentati dal Generale. Quello che vide lì dentro si tramutò in ossessione, in un bisogno di raccontare, tramandare, svelare ciò che una parte del suo stesso Paese continua, ancora oggi, a cercare di ignorare. Lo ha fatto con il trittico di documentari, Battaglia del Cile (1975/1977/1979), con Il caso Pinochet del 2001 e Salvador Allende realizzato nel 2004, per trovare una chiave di lettura nuova, lirica ed originale con i suoi ultimi due lavori, ai quali lo stesso regista ha affermato di poter realizzare un terzo capitolo che, sempre partendo da un elemento naturale, aggiunga un nuovo tassello alla sua riflessione storico/sociale.
La memoria dell'acqua parte dall'analisi del ruolo fondamentale dell'elemento liquido nella formazione della vita e delle culture per arrivare poi ad una rilettura della storia stessa del Cile, le cui coste raggiungono gli oltre 750.000 km in un territorio circondato da un mare con il quale - a detta del regista - non ha saputo comunicare, progredendo per similitudini che dall'universo e le sue stelle giungono fino al racconto del simbiotico rapporto degli indios con l'acqua e il cosmo fino all'arrivo, fatale, dei coloni e allo sterminio di civili ed oppositori politici durante la dittatura protratta fino al 1990 durante la quale molti dei corpi torturati venivano gettati in quello stesso mare testimone dell'orrore ciclico della storia che Guzmán fa nuovamente riaffiorare, conscio dell'importanza della memoria come monito per il futuro.
Acqua, idea inseparabile dalla vita
Il documentario si apre sull'inquadratura di un blocco di quarzo, risalente a molti secoli fa, al cui interno è incastonata una singola goccia di acqua, per poi aprire ad una poetica quanto scientifica considerazione sul ruolo stesso del prezioso liquido, forse arrivato sulla Terra trasportato da comete il cui impatto ha formato quelli che sarebbero poi diventati gli oceani. Riprendendo l'uso della voce fuori campo di Nostalgia della Luce, il cineasta, con uno stile che oscilla tra il documentario didattico ed inquadrature che ricordano alla lontana il lavoro di Terrence Malick, costruisce una narrazione focalizzata su un obiettivo ben preciso che decide di trattare partendo, ancora una volta da qui telescopi dell'Osservatorio di Paranal rivolti verso il cielo, per avvicinarsi, lentamente, dritto al cuore della storia, mostrando nella sua interezza lo scheletro del racconto.
Utilizzando un approccio narrativo insolito, paragonabile, seppur in misura minore, al lavoro di Joshua Oppenheimer con The Act of Killing - L'atto di uccidere e The Look of Silence, con i quali il regista statunitense racconta un altro eccidio anticomunista, quello avvenuto in Indonesia tra il '65 e il '66, Patricio Guzmán filma un Cile di una bellezza inquieta ed eccitante, dove l'acqua, sotto forma di oceani, ruscelli, pioggia o ghiacciai, è protagonista indiscussa per lasciare, progressivamente, sempre più spazio al racconto delle tribù nomadi di indios che vivevano in Patagonia prima dell'arrivo dei coloni e al bagno di sangue che ha accompagnato il Golpe (nello stesso giorno fu registrata l'esplosione di una Supernova) ed i successivi anni di dittatura, raccontati da un altro grandissimo cineasta cileneno, Pablo Larrain, in Post Mortem e No - I giorni dell'arcobaleno.
Il bottone di perla
Lavorando per analogie, Guzmán, si sofferma sul rapporto armonioso che legava gli indios all'acqua, alla natura incontaminata di un Cile che ancora non aveva conosciuto la pagina buia del colonialismo e all'universo stesso, affascinati da quelle stelle secoli dopo osservate dagli astrofisici nel medesimo territorio dal quale furono cacciati e perseguitati dagli invasori. Il documentario, il cui titolo originale è El botón de nácar (Il bottone di perla), compie il disegno del regista - quello cioè di affiancare il doppio eccidio del quale è stato testimone il Cile - proprio attraverso un bottone, simbolo di entrambi gli stermini, contrapponendo la storia di Jemmy Button, indigeno pagato per salire sulla nave dei coloni che l'avrebbe portato nella futuristica Inghilterra del 1830 con un bottone di madreperla, a quella del bottone ritrovato incastonato nella ruggine di una delle rotaie, ripescate nel 2004 dal fondale marino, che venivano legate attorno ai corpi dei desaparecidos prima di essere gettati in acqua a seguito delle torture inflitte a Villa Grimaldi, uno dei centri di detenzione della dittatura Pinochet.
Un documentario capace di equilibrare la bellezza e forza della natura alla crudeltà della storia partendo dal valore simbolico dell'acqua e la sua presenza tra cosmo e terra per estendersi ad un'angolazione inedita dalla quale continuare a ricordare.
Movieplayer.it
4.0/5