Recensione Moonrise Kingdom (2012)

Pochi registi, nel panorama cinematografico moderno, possono vantare uno stile così personale e riconoscibile come quello di Wes Anderson, e già nelle prime sequenze di Moonrise Kingdom si avverte in modo inequivocabile la sua impronta cinefila e il suo sguardo surreale.

La piccola fuga

Siamo nell'estate del 1965, in una piccola isola sulla costa del New England: Sam e Suzy hanno entrambi 12 anni, ma per il resto le loro similitudini non sono molte. Lui è un orfano che è stato appena cacciato dalla famiglia che lo aveva adottato per il suo carattere problematico, ed è poi entrato nel campo scout retto dall'eccentrico Mastro Ward; lei è figlia di una famiglia ricca che vive in un lussuoso villino, con due genitori talmente stufi l'uno dell'altra da abitare su due piani separati e comunicare tra loro attraverso un megafono. Un giorno, i due si incontrano casualmente durante una recita scolastica di lei, si guardano ed è colpo di fulmine: nel giro di poco iniziano a scriversi, diventano amici di penna e programmano una fuga insieme. La fuga avviene esattamente un anno dopo, e finisce per gettare nel panico la piccola comunità: con i genitori della ragazzina furiosi, lo sceriffo solidale con i due piccoli fuggitivi, e i compagni di Sam (e lo stesso Ward) che iniziano a vedere il ragazzino sotto una luce diversa.


Pochi registi, nel panorama cinematografico moderno, possono vantare uno stile così personale e riconoscibile come quello di Wes Anderson. Già nelle prime sequenze di questo Moonrise Kingdom, infatti, si avverte in modo inequivocabile l'impronta del regista de I Tenenbaum e Fantastic Mr. Fox: la scansione minuziosa degli interni dell'abitazione di Suzy, le scenografie fantasiose e i colori pastello, gli esterni surreali del campo scout, la presentazione di personaggi che fin dalle prime battute appaiono caricaturali e sopra le righe. In un universo umano come quello descritto da Anderson e dal co-sceneggiatore Roman Coppola, in effetti, Sam e Suzy appaiono di fatto come i personaggi più equilibrati; due Romeo e Giulietta sui generis, piccoli sognatori in grado tuttavia di studiare e mettere in atto un piano di fuga, laddove gli adulti arrancano nelle loro incertezze e meschinità quotidiane, e vanno nel panico di fronte all'emergenza creata loro dai due fuggitivi. Anderson crea il suo caleidoscopio ambientale e umano strappando risate convinte e colpendo l'occhio con le sue scenografie da fumetto, ma il suo gioco non è mai fine a sé stesso: lo sguardo del regista sulla comunità cittadina è acido, tra assistenti sociali rapaci, poliziotti poco credibili nel loro ruolo, e una rappresentazione della vita familiare borghese tutt'altro che positiva o rassicurante.

Nella sua ottica programmaticamente nerd e sfrontatamente cinefila, il regista inanella citazioni (gustosissima quella, inattesa, da Le ali della libertà), ironizza su tutti i luoghi comuni del cinema bellico e mette alla berlina impietosamente una realtà come quella dei boy scout; ma soprattutto offre un racconto "ad altezza di bambino" che, pur nella semplicità della sua struttura da favola moderna, colpisce per la sua freschezza e sincerità. Assolutamente da ricordare singole sequenze che coinvolgono i due piccoli protagonisti (i bravissimi esordienti Jared Gilman e Kara Hayward) tra cui un divertentissimo primo bacio e un curioso ballo; perfetti si rivelano inoltre anche i nomi "pesanti" del cast (in realtà semplici comprimari per le performance dei due ragazzini) quali lo sceriffo dal volto umano di Bruce Willis, il pittoresco capo scout interpretato da Edward Norton e l'ansiosa e triste coppia composta da Bill Murray e Frances McDormand. Il ritmo è quello vivace e in crescendo di tutti i film di Anderson, il cui tocco è riconoscibile anche nella scelta del commento sonoro, tra le composizioni classiche che aprono (e chiudono) il film e momenti più pop che ben riecheggiano il periodo in cui la storia è ambientata (gli anni '60). L'esito felice dell'avventura di Sam e Suzy rispecchia quello del film, ultimo gustoso tassello della carriera di un cineasta la cui riconoscibilità, finora, non si è mai trasformata in maniera. L'auspicio, ovviamente, è che ciò continui per molto tempo a non accadere.

Movieplayer.it

4.0/5