La fiera dello stereotipo
Dopo un passaggio veneziano non certo trionfale, sbarca nelle sale italiane il nuovo film della premiata ditta Ivory/Merchant. Questa volta il regista ed il produttore non ci portano a rivisitare le pagine di Henry James o le atmosfere algide e molto british delle loro produzioni precedenti, ma ci raccontano invece una storia d'amore nella Parigi dei giorni nostri, una Parigi che diventa quindi palcoscenico delle vicende di Le divorce.
Roxeanne è una poetessa, è californiana e vive a Parigi con il marito Charles-Henri. Roxeanne fa una doppia scoperta: è incinta e il marito la tradisce. Lui ama un'altra, e la lascia. Per stare vicino alla giovane, dalla California arriva la sorella Isabel, presto raggiunta da tutta la famiglia. Il galateo francese impone comunque le sue regole, e Roxeanne continua a frequentare la famiglia del marito, nonostante questi le abbia chiesto il divorzio: ed in tutto questo accade anche che Isabel s'innamori dello zio del suo prossimo ex-cognato, imbarcandosi in una relazione clandestina con lui.
Questa è la volutamente confusa trama di Le divorce, che Ivory ha tratto dall'omonimo romanzo di Diane Johnson, e che vuole essere da un lato una "semplice" commedia sentimentale, dall'altro l'ennesimo film sul rapporto Francia/Stati Uniti, anzi, francesi/statunitensi.
Esaminiamo il primo di questi due aspetti: Le divorce è una commedia sentimentale decisamente malriuscita, che gioca su situazioni ed equivoci vecchi e stantii, senza fare alcun tentativo di ravvivarli o renderli personali. Ivory non riesce nemmeno in quello che era stato un punto di forza del suo cinema precedente, ovvero quello di riuscire a tratteggiare i suoi protagonisti in modo tale da farci provare empatia o persino simpatia per loro. I protagonisti di Le divorce ci stanno tutti più o meno antipatici: sono sgradevoli, egoisti, gretti o eccessivamente affettati. E se nemmeno per la "povera" Roxeanne, interpretata dalla pur brava Naomi Watts riusciamo a provare sentimenti particolarmente positivo, figuriamoci per la sua viziata sorella, che ha le fattezze e gli atteggiamenti di quella Kate Hudson che già da sola non arriva ad essere un mostro di simpatia.
In tutto questo poi stupisce che un regista checché se ne pensi esperto come Ivory abbia diretto il film con uno stile piatto e al limite dello sciatto, rifugiandosi spesso e volentieri nello stereotipo, narrativo o visivo che sia. Ma parlando di stereotipi, se quanto abbiamo detto non bastasse, a far affondare definitivamente e irrimediabilmente il film è appunto la visione (stereotipata al limite del razzismo pseudo-intellettuale) che nel film viene fornita degli americani e soprattutto dei francesi. I primi sono goffi, ossessionati dal denaro, caciaroni e confusionari; i secondi sono falsi, snob, settari, arroganti. Non manca nulla nella cartolina turistica messa in scena da Ivory: la nouvelle cuisine, i foulard di Chanel e le borsette di Hermes. Anzi, mancherebbero le rane di cui sono ghiotti i nostri cugini d'oltralpe nell'immaginario degli americani (vedi Appuntamento a Belleville, che invece sugli stereotipi sulle due popolazioni ironizzava con gusto e intelligenza).
Le divorce è un film che quindi non coinvolge e non commuove, non regala empatia né ci spinge a riflettere sulla difficoltà di armonizzare le differenze culturali. È un film che ci irrita e basta, per la pochezza della sua messa in scena e per la banalità delle situazioni che racconta, fino ad un finale sulla Tour Eiffel (e dov'altro altrimenti??) che vorrebbe regalare alle vicende e allo spettatore un guizzo di dinamicità e brivido, ma che non fa altro che mettere la parola fine su una storia che fin dall'inizio scivola lentamente ma inesorabilmente verso il basso, come il foulard che nella sequenza finale cade dalla torre simbolo di Parigi e vola via sopra i tetti di una Ville Lumière mai così banalizzata e spenta.