Arrivati ai titoli di coda di La fiera delle illusioni - Nightmare Alley si prova una strana sensazione appiccicosa, che come una goccia di pioggia si è appoggiata sulla fronte e non accenna ad asciugarsi. Il nuovo film di Guillermo del Toro, nella sua dimensione da noir puro, che sembra provenire dalla Hollywood classica degli anni Quaranta (e, a questo proposito, chissà se anche in Italia potremmo vedere la versione in bianco e nero), sembra rifuggere dai classici stilemi del regista messicano. In questo film è totalmente assente il fantastico, ancorando l'opera al terreno (ci torneremo presto su quest'aspetto), così come mancano i mostri e le creature del soprannaturale, vero e proprio leitmotiv della filmografia del nostro. Eppure, scavando sotto la superficie, questo adattamento del romanzo di William Lindsay Gresham corrisponde perfettamente alle tematiche care a del Toro, ponendosi come nuovo tassello, più maturo e adulto, anche più raffinato, nel suo corpus di opere. È ambientato nel passato, durante i primi anni della Seconda Guerra Mondiale (e chissà se il suo Pinocchio, in uscita a dicembre su Netflix, che è ambientato nello stesso periodo storico vedrà qualche collegamento tematico), ma qualcosa sembra legarlo alla contemporaneità. Forse abbiamo trovato i motivi che stanno dietro quella sensazione sporca che La fiera delle illusioni ci ha lasciato. Forse il significato del film riguarda tutti noi.
Dalla terra al fango
Si parte dalla terra, sempre. L'ascesa di Stanton Carlisle (Bradley Cooper), che è anche una discesa, inizia dal punto più basso possibile. Senza soldi, senza casa, senza legami famigliari, anche senza parola. Dal basso. La macchina da presa di del Toro si pone, per tutta la prima parte del film, ad altezza rasoterra quando deve seguire il personaggio, inquadrandolo dal basso verso l'alto. Inquadratura che, solitamente, pone la figura umana sovrastante nel quadro e spesso è utilizzata per sottolinearne la potenza e la forza. È il primo corto circuito linguistico del film, basato sull'illusione e sullo storytelling: Stan non è potente, anche se lo sembra; non lo è, anche se racconta agli altri di esserlo. La scelta dell'inquadratura corrisponde sia al racconto di Stan, a quello che vuole far credere al proprio pubblico, i gonzi creduloni che lo devono ammirare dal basso verso l'alto, sia lascia percepire la realtà tangibile e terrena della vicenda: Stan è un uomo piccolo e appartiene al basso. Man mano che la storia prosegue e Stan si fa sempre più forza, migliorando sempre di più il proprio talento, osando e credendo sempre di più alla sua percezione della realtà, anche la macchina da presa si alza, ponendosi finalmente ad altezza uomo. Infine, nell'ultima parte del film, con la caduta di Stan, chiudendo il cerchio, si torna a toccare la fangosa terra, costantemente bagnata dalla pioggia e dalla neve. Il linguaggio visivo denota una maturità e una raffinatezza dal punto di vista registico che dona profondità a una narrazione che sembra appartenere a un altro tempo (e per questo a volte il film è stato letto come prevedibile e sin troppo scontato, dimenticando che il come si racconta, in un'arte legata alle immagini ha sempre più importanza rispetto al cosa), quasi messa sotto metanolo. La neve che congela e fissa ciò che stiamo osservando. La storia di Stan diventa quindi un esemplare sottovuoto da osservare, un'ennesima attrazione di un freak della fiera delle vanità.
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I mostri siamo noi
Dove sono i mostri nell'ultimo film di del Toro? Sono esattamente di fronte a noi. Anzi, potremmo persino dire che i mostri siamo noi. E se usiamo il plurale, è perché La fiera delle illusioni, pur essendo ambientato negli anni Quaranta, sembra fare un discorso sulla realtà contemporanea. Negli ultimi mesi abbiamo avuto modo di notare come alcuni registi, che data la carriera e la loro nomea, potremmo racchiudere per chiarezza sotto il nome di "vecchi maestri" siano stati colpiti più del previsto dalla situazione pandemica e dagli sviluppi dell'industria. Registi che si sono visti costretti ad abbracciare i dispositivi domestici e le piattaforme streaming, pur di dar vita alle loro visioni. E se così non è stato per alcuni nomi come Spielberg o lo stesso del Toro, gli incassi al botteghino dei loro nuovi film hanno dimostrato che, forse, si è perso un certo tipo di pubblico per un determinato tipo di film. Sicuramente, questo cambio di abitudini e di fruizione, questo nuovo panorama è percepibile anche dagli stessi autori, che con i loro ultimi film danno la sensazione di aver riflettuto sulla contemporaneità di oggi. Nel caso di del Toro, La fiera delle illusioni nasconde un messaggio che potrebbe non piacere agli stessi spettatori. Perché la favola che si racconta Stan, a sé stesso e a chi lo circonda, assomiglia molto alla dimensione dei presunti influencer. Non i pochi che sono riusciti a elevarsi davvero nel mondo dei social, ma la maggioranza, chi sceglie di raccontare la propria illusione online, autoconvincendosi della propria unicità. Il circo dei baracconi di Clem è sotto gli occhi di tutti e, nessuno escluso, siamo sia spettatori delle attrazioni che le attrazioni stesse.
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Il giudizio di Dio
Cicatrici sfoggiate come medaglie, frasi a effetto come "è successa la vita" per catturare l'empatia, finte relazioni d'amore per dimostrare affetto e seguire gli interessi personali. La fiera delle illusioni è quella a cui scegliamo di credere, quella che scrolliamo costantemente sullo schermo dello smartphone, quella che raccontiamo per una decina di like. Protagonisti della propria storia inventata, diventiamo attori che non riescono più a scindere la realtà vera, quella terrena, da quella propria distorta. Ci si eleva come la macchina da presa, per raggiungere una dimensione quasi divina, rifuggendo dallo sguardo del vero "mostro", il feto esposto nella tenda di Clem, Enoch. È il suo occhio, che come nei dipinti sembra continuamente seguirci, a giudicare: il giudizio di Dio. Non a caso è su Enoch che iniziano a comparire i titoli di coda, rivolgendosi direttamente allo spettatore. È un film cattivo, aspro e disilluso quello di del Toro, che si conclude con una risata beffarda nei confronti del pubblico. Una risata di pazzia che raffigura, visceralmente, l'estrema caduta, soprattutto etica e morale. Perché se non c'è nulla di meno umano che essere dei mangia-bestie, ancora di più lo è diventare una bestia mangiata.