L'occhio. L'occhio che si apre, guarda, scruta e analizza il mondo che lo circonda. L'occhio, ponte fisico e fisiologico a volte mendace tra l'interno e l'esterno. L'occhio, testimone onesto e burlone di vite che ci scorrono a fianco, silenti, urlanti, interessanti o apatiche. In una rete di sguardi che credono di vedere lasciandosi imprigionare dalla matassa della propria immaginazione, non poteva che essere l'occhio artificiale della cinepresa di un regista come Joe Wright a tradurre in immagini La donna alla finestra. Sono tanti gli occhi che hanno invaso l'opera del regista inglese, lasciandosi scrutare e scrutando a loro volta lo spettatore in sala. Uno scambio reciproco di iridi, pupille, visioni curiose che da stilemi autoriali si elevano adesso a leitmotiv tematico e narrativo del film tratto dal best-seller di A.J. Finn e sbarcato su Netflix il 14 maggio. Il risultato è un costrutto visivo di omaggi meta-cinematografici che non trova nella sua struttura narrativa un fedele alleato. Per sapere dunque se il film con protagonista Amy Adams, disponibile su Netflix, merita la visione, continuate a leggere la nostra recensione de La donna alla finestra.
GIOSTRA DI SGUARDI
Gli occhi di Amy Adams sono rimasti chiusi per due anni. 24 mesi di attesa, congelati in un attimo eterno e adesso pronti ad aprirsi dando il là agli eventi che sconvolgeranno l'esistenza della sua Anna Fox. È lo sguardo in camera dell'attrice che apre questa giostra di sguardi, umani e artificiali che tra reshoot, ritardi e diatribe produttive, sembrava non vedere mai la luce dello schermo. Proprio come l'inquadratura onirica di Io ti salverò di Alfred Hitchcock (qui esplicitamente mostrata dallo stesso regista di Espiazione) il cinema di Joe Wright è un universo di occhi che scrutano e osservano. Dettagli fisici mai lasciati al caso, perché collegamenti diretti con un'interiorità non sempre facile da esternare a parole. Allora basta uno sguardo in camera, una domanda diretta ai propri spettatori, che il mondo fatto di emozioni sopite, sentimenti non detti, timori e minacce, sgorgano come fiumi in piena da quegli sguardi profondi. E negli occhi di Amy Adams l'azzurro dell'iride lascerà ben presto posto al nero della paura, del terrore, dell'insicurezza.
Occhi che guardano e mani che toccano, cercano, ponti mnemonici e fisici che si affidano a tasti del computer, o schermi televisivi e di smartphone sempre accesi, indizi di un passato rimosso, persone perdute, o apparentemente immaginate.
In questa giostra di corpi dissezionati, al limite tra anima e corpo, lo stile registico di Joe Wright si adatta perfettamente alla visione di una donna che cerca nella potenza e veridicità del suo sguardo, reduplicato da istantanee eterne fatte di foto e disegni sulla carta, la propria innocenza e verità.
È un libro improntato sull'importanza dello sguardo, quello di A.J. Finn, e non c'era cinema migliore di quello di Joe Wright per coglierne ogni punto di forza, esacerbandolo e reduplicandolo in mille e più riverberi. Al resto ci pensa un montaggio capace di dare il giusto ritmo a questa ricerca della verità, tra campi e controcampi accuratamente studiati e mai lasciati al caso, e salti temporali pronti a destabilizzare per poi rivelare, sebbene l'inserimento di qualche inserto onirico e/o allucinogeno, risveglino lo spettatore da questa sospensione di realtà perdutasi tra le braccia dell'arte dell'incubo e della teatralità.
I 30 migliori thriller psicologici da vedere
DOPPI SCHERMI, DOPPI SENSI DI COLPA
È un gioco di sguardi, ma anche di reduplicazioni, La donna alla finestra. Tanto l'opera letteraria di partenza, quanto la sua traduzione cinematografica, seguono le linee tracciate sul terreno da La finestra sul cortile, capolavoro senza tempo di Alfred Hitchcock. Il film del 1954 si fa carta carbone per l'opera di Wright, tanto da divenire oggetto di citazioni e omaggi (per pochi secondi, nelle prime battute del film, la pellicola di Hitchcock compare addirittura sullo schermo della tv della protagonista). Sebbene siano tanti i riferimenti hitchcockiani (da La donna che visse due volte, a Psyco) Wright non cade nell'errore di copiare l'operato del maestro del brivido, quanto assimilare e far suoi i guizzi geniali dell'autore inglese per infondere tensione nello spettatore. Le carrellate, le inquadrature angolate, i primissimi piani, sono lezioni attentamente seguite e facilmente apprese dal regista de L'ora più buia al fine di creare una ragnatela intessuta di tensione e angoscia. Al resto ci pensano cifre autoriali che già hanno dato vita allo sguardo personale di Joe Wright, dai riflessi allo specchio, all'impiego di "doppi schermi" come cellulari su cui registrare il proprio testamento, o schermi televisivi su cui scorrono immagini tratte da opere classiche del cinema che, nelle vesti di profeti in celluloide, preannunciano la natura dei futuri colpi di scena all'interno del film. Per veicolare la paura, Wright non sceglie dunque situazioni che l'annunciano a priori, depotenziandone l'effetto scioccante. Il regista opta piuttosto per territori che di per sé non potrebbero terrorizzare, insinuando la paura senza mostrarla. Superfici riflettenti, TV, obiettivi delle fotocamere, smartphone, dopo Nosedive queste superfici tecnologiche ritornano a fungere come tante parti di un puzzle di sguardi e schermi che Wright chiama ancora a sé per simboleggiare la frantumazione del sé di un personaggio al limite dell'autocontrollo. Viaggiando tra psicosi, allucinazioni, e rimorsi, Anna Fox trova nelle pastiglie e nell'alcool due guide privilegiate nella sua discesa al centro del proprio inferno personale. Restia all'idea di poter riveder le stelle, la sua agorafobia è un mondo che la imprigiona tra le mura di un appartamento che la protegge dilaniandola. E allora ecco di nuovo comparire l'obiettivo di una fotocamera, di un cellulare, di un computer, come ponti tra la propria depressione personale, e la tragedia di altri, in un eterno slancio voyeuristico che, riprendendo la lezione avanzata da La finestra sul cortile, ci ricorda quanto siamo tutti diventanti una massa di Peeping Tom.
80 Film da guardare su Netflix - Lista aggiornata ad aprile 2021
IL TEATRO DELL'ORRORE
Chiusa nel suo appartamento, Anna Fox si eleva a protagonista di un dramma in un teatro domestico. La fotografia chiaroscurale di Bruno Delbonnel, e una scelta cromatica improntata su un trionfo di rosso, non solo vuole rimandare all'immagine del sangue, come quello che imbratta il corpo della vicina Jane Russel, ma anche dei sipari di un teatro che è pronto ad aprirsi, dopo mesi di chiusura forzata, sul palcoscenico della vita di Anna Fox. Non a caso gli attori vengono spesso immortalati al centro della scena, incorniciati da finestre, o porte, che vanno a reiterare architettonicamente le cornici dell'inquadratura, o del proscenio teatrale. "I just need to be at the center of something" afferma il personaggio di Amy Adams; un bisogno essenziale, il suo, che si ripercuote nella scelte di posizionamento degli attori e nella loro prossemica. E così, perfino le ante di una finestra si elevano a demarcatori spaziali di confine tra due mondi appena avvicinatasi (Anna Fox e Jane Russell) e ora destinati a sperarsi per sempre. Anna si eleva così al ruolo di attrice davanti a un pubblico di spettatori astanti, che non capiscono, o che non vogliono credere alla sua performance. Nessun battito di mani, ma smorfie, dita puntate, toni minacciosi. Una tragedia dell'assurdo, scritta non più da Bardi e mani alacri, ma penne discrete, che accennano un brivido dimenticandosi dell'urlo catartico. E così, dinnanzi a una costruzione di impronta teatrale dove ogni elemento è perfettamente studiato, e ogni passaggio attentamente raccordato da un sapiente lavoro di taglia e cuci a opera di Valerio Bonelli (il cui montaggio emozionale ancora una volta va a enfatizzare e sottolineare quello registico di Joe Wright) la sceneggiatura risente di lacune informative, nozioni basilari, che permettono la piena adesione al personaggio principale e la totale comprensione dell'inferno in cui la donna si è ritrovata a vivere. Senza la lettura preventiva dell'opera che ne sta alla base, La donna alla finestra finisce per essere un edificio bellissimo, costruito a opera d'arte, con vani e ambienti disposti in maniera funzionale, ma vuoto, privo d'anima e di vita. Ci provano Amy Adams, Gary Oldman e soprattutto Julianne Moore a colmare tali mancanze attraverso performance magistrali, ed empaticamente d'impatto, ma sono tanti i passaggi che fanno perdere l'orientamento in questa selva oscura senza vera paura. Nate come indizi di una mente annebbiata, confusa, che perde i pezzi della propria esistenza, queste lacune narrative non possono solo nascondersi dietro la facile facciata di un'ipostasi di una mente malfunzionante. Sono semplicemente mancanze, passaggi interrotti e mai recuperati, persi nei bicchieri colmi di vino che Anna Fox beve sorso dopo sorso. La stessa musica di Danny Elfman si fa mero accompagnatore, senza mai svolgere un ruolo decisivo nell'enfasi emotiva e umorale che si vive sulla scena. Le sue note non colpiscono il cuore; lo solleticano, senza atterrirlo.
Tra i silenzi delle battute si percepisce il lavoro di modifica, di riprese rifatte, maneggiate, che hanno graffiato un gioiello prezioso. Una macchina che inchioda di colpo, che non viaggia in maniera sempre fluida. Ciononostante a dar vita a quella macchina sono occhi che sanno creare, disporre oggetti con maestria e attenzione. L'occhio, l'occhio che guarda, scruta, indaga, crea, ma senza la mano che scrive, non colpisce e rivela.
Conclusioni
Concludiamo la nostra recensione de La donna alla finestra sottolineando quanto il comparto tecnico, registico e attoriale non sia stato supportato da una sceneggiatura d'impatto e da una colonna sonora altrettanto emozionante. Questo film poteva dare molto di più.
Perché ci piace
- La regia di Joe Wright
- La fotografia di Bruno Delbonnel
- La bravura di Amy Adams e Julianne Moore
Cosa non va
- Una sceneggiatura non ai livelli del comparto visivo
- Un commento musicale non incisivo
- Inserimento di inserti che rompono la magia venutasi a creare