Recensione La casa nera (1991)

Toni da fiaba noir, la povertà del ghetto e una coppia di ricchi tra le più pazze al mondo: Wes Craven torna a far sobbalzare il suo pubblico con un tocco di sociologia spicciola in più.

La casa dei capitalisti viventi

Dopo l'affresco antropologico de Il serpente e l'arcobaleno, Wes Craven con La casa nera (traduzione italiana leziosa e "acchiappaspettatori" dell'originale The people under the stairs) prova a ripercorrere le orme dell'horror da leggere (e da vedere innanzitutto) in chiave sociologica. Il romeriano La notte dei morti viventi e l'opera omnia di John Carpenter costituiscono sicuramente i punti di riferimento obbligati per un cinema di genere che tende soprattutto a criticare i meccanismi della moderna società industriale. Craven, da par suo, accoglie la lezione ma con un solo film fa prendere allo spettatore, come in un atto di consumismo cinematografico, tre "prodotti" allo stesso tempo, accorpando il disagio dei ghetti neri, il terrore più genuino e l'attacco frontale al capitalismo.

Il tentativo è di quelli ambiziosi e il rischio di noiose elucubrazioni situate ai limiti del cinema semplicemente militante è dietro l'angolo in casi simili. Wes Craven, invece, aggira l'ostacolo abbattendolo soprattutto nella parte centrale del film, senza mascherare, in altre parole, l'apologo sociale con le ennesime creature dell'impossibile. L'atteggiamento realistico nella pellicola di Craven è, infatti, quello dominante. I cattivi de La casa nera sono rappresentati da una "normale" coppia di folli riccastri trincerati all'interno di un enorme edificio (quasi una versione incattivita della magione della Famiglia Addams), e quelle presenze tangibili che si aggirano nei sotterranei e lungo le pareti, non sono che semplici reietti e sventurati caduti sotto le grinfie del fascino poco discreto e molto dissestato dei due deviati rappresentanti della middle-class americana. I terrificanti emarginati che albergano la casa nera sono anche loro spettatori non paganti della prima guerra del Golfo (trasmessa dalla tv collocata nei corridoi interni) e si nutrono con la carne dei propri simili (il capitalismo che alimenta se stesso e all'infinito, secondo l'ottica vetero-marxista).

Craven nella prima parte non evita i toni melodrammatici, pigiando, ma non troppo, l'acceleratore sulle disgrazie di "Grullo" e della sua famiglia (la mamma gravemente malata, l'impossibilità di farla operare per mancanza di soldi e, se ciò non era ancora sufficiente, anche lo sfratto). Si cambia registro dal momento in cui entra in scena la fatidica casa nera. Da qui in poi, infatti, il regista di Nightmare - Dal profondo della notte ristabilisce gli equilibri riproponendo al pubblico ciò che meglio sa creare: gli spaventi a catena. Tra i toni grotteschi, e a volte esagerati, della coppia svitata (Everett McGill e Wendi Robi, protagonisti sempre notevoli, come in Twin Peaks) e le bordate al capitalismo (i dollari conservati nella stanza dell'imbalsamazione), la tensione è sempre alta, e ciò grazie ad un efficace impianto di trucchi e trabocchetti che Craven, nel corso della sua carriera, ha sempre saputo gestire con maestria. Le movenze da action movie sono, inoltre, raffrenate in un'estetica che anticipa molti videogiochi di ultima generazione (il cattivone in tenuta bondage e con arma in pugno sembra una Lara Croft[ al maschile appena sfiorata dalle deformazioni di Hellraiser), mentre il piccolo protagonista diventa l'incarnazione di un qualsiasi bimbo delle fiabe alle prese con orchi ben più malvagi e boschi incantati molto più ostici. E' un caleidoscopico tunnel dell'orrore collocato nel paese delle meraviglie orrorifiche (non a caso è Alice il nome della bimba segregata all'interno della casa) quello che Craven ci fa percorrere all'interno de La casa nera. Tra un anfratto e l'altro, quello che tuttavia resta della critica sociale di partenza è solamente un pugno di dollari svolazzante che spazza via il male redimendo pleonasticamente i dannati del ghetto.

Quello di Craven è stato, in fin dei conti, solo un pretesto per giocare ancora una volta con il genere (come in Scream), sfruttando in superficie un presupposto intellettualmente alto (forse troppo).