Recensione The International (2009)

Tykwer si conferma regista dall'occhio fine che sa cogliere al meglio le geometrie degli spazi e il fascino degli ambienti, nonché un grande pennellatore di dettagli. Troppo spesso però il film si limita a uno spettacolo gelido dove la ricerca formale si fa più intrigante del contenuto, zeppo di fronzoli ma povero di idee forti.

La bancarotta del terrore

Per il suo settimo film, Tom Tykwer iberna il poetico romanticismo che ha da sempre contraddistinto la sua filmografia, per concentrarsi sui giochi di potere macchiati di sangue che riformulano, a livello globale, il concetto di giustizia. A differenza di tutti i suoi lavori precedenti, inoltre, fa del suo protagonista un eroe senza macchia, mosso da nobili ideali, che lotta strenuamente per raggiungere un obiettivo fin troppo grande. The International racconta, infatti, di un agente dell'Interpol che, con l'aiuto di un'assistente procuratore distrettuale di New York, indaga sui distinti signori del terrore di una banca del Lussemburgo coinvolta in un losco, per quanto legale, traffico d'armi. Sotto la cravatta nessun cuore: chiunque si ponga sulla loro strada è destinato a morire. Da quest'idea, che trova oggigiorno inquietanti agganci con l'attualità, l'esordiente sceneggiatore Eric Singer dipana un thriller politico, a tensione nulla, che zoppica tra Berlino, Milano, New York e Istanbul.

Il film di Tykwer è quindi un prodotto cosmopolita, sulle tracce della trilogia di Jason Bourne, eppure sembra immobile, o soltanto turistico. Dei luoghi che tocca ne parla da osservatore esterno, con una visione della realtà per questo alquanto limitata: dell'Italia tutto il male possibile, senza capire che in verità è anche molto peggio. A bloccare The International è la sua stessa inconsistenza, costretto com'è a inventarsi l'azione dal nulla, in una storia barbosa da piani alti che gestiscono con egoismo e crudeltà il destino del mondo. Pochi sono infatti i lampi in cui il film si vivacizza e che fanno correre e sparare il bravo Clive Owen, ma in essi domina una curiosa ironia e un'esagerazione che stonano col tono generale del film, per lo più solenne e 'impegnato'. Non essendo mai stato un regista di dialoghi, Tykwer si trova nel non facile compito di gestire degli attori parlanti. Purtroppo, ciò che chiede loro di pronunciare sono fiumi di chiacchiere che si credono lucide, ma s'infrangono su una banalità fine a sé stessa, che imbastisce anche attraverso la concatenazione di eventi clou un discorso che non può arrivare molto lontano: certi infami meccanismi non potranno mai essere fermati, la giustizia dei puri è destinata a rimanere un'utopia.
Che Tykwer sia un ottimo regista è fuori discussione. Ce lo conferma, a tratti, anche questo suo ultimo, sciagurato lavoro che ci restituisce un occhio fine che sa cogliere al meglio le geometrie degli spazi e il fascino degli ambienti, nonché un grande pennellatore di dettagli. Troppo spesso però si assiste a uno spettacolo gelido dove la ricerca formale si fa più intrigante del contenuto, zeppo di fronzoli ma povero di idee forti. La credibilità latita, e sotto una pioggia di cadaveri eccellenti non scivolare nel ridicolo diventa un'autentica impresa. Siamo in un territorio per soli uomini, dove le trame di corruzione sono tessute da chi porta i pantaloni, ed è anche per questo che la star Naomi Watts viene limitata a un ruolo di contorno che potrebbe benissimo non esistere. Anche perché la sua sensibilità di donna non scalfisce certo la determinazione dell'eroe Owen, beffato in un finale che lascia interdetti per la sua grossolanità. Sarebbe bello pensare che dopo il tentativo della megaproduzione Tykwer torni a fare il cinema che più lo rappresenta, quello mosso dal cuore; per il momento tocca accontentarci di un magnifico nulla.