Recensione Bob Wilson's Life & Death of Marina Abramovic (2012)

Il film di Giada Colagrande sembra generarsi spontaneamente dalle testimonianze dei suoi protagonisti, dalle loro parole evocative, capaci di chiarire dubbi, di rendere esplicite simbologie e caricature.

L'infanzia che non è mai finita

Divise, falci e martelli che roteano nel cielo, movenze sinuose, capelli corvini raccolti in un acconciature retrò o rossi e scarmigliati, voci profonde e cori angelici, madri feroci, volti bianchi come la morte, figure immobili e bandiere al vento. Tutto questo appartiene alla vita di Marina Abramovic, artista visiva di culto a cui la Serbia ha dato i natali per poi privarla della serenità. La Abramovic, rappresentante della perfomance art più estrema, nel corso di una carriera quarantennale ha trasformato il proprio corpo e i propri gesti in opere d'arte sfidando pudore, dolore fisico e mettendo alla prova il sadismo del pubblico. Con l'aiuto del regista teatrale Bob Wilson la Abramovic ha deciso di affrontare la prova estrema: raccontare la propria dolorosa esistenza partendo dalla morte. L'ambizione dell'artista è quella di aprire la biografia simbolica col suo funerale che si tiene contemporaneamente nelle tre città chiave della sua esistenza, Belgrado, Amsterdam e New York, per poi trasfigurare nel racconto teatrale drammi e dolori, dall'emofilia che durante l'infanzia l'ha costretta a lungo in ospedale alla fine dell'amore col collega tedesco Ulay, dall'ascesa del Comunismo nella nativa Jugoslavia al difficile rapporto con la madre autoritaria. Incapace di dirigere in prima persona un lavoro così emotivamente carico e personale, la Abramovic ha scelto di affidarsi alle mani esperte del visionario Bob Wilson, il quale ha tramutato il dolore in ironia facendo largo uso del simbolo e delle atmosfere kitsch, soprattutto nei momenti più sofferti.

La regista Giada Colagrande, moglie del narratore della pièce, il trasformista Willem Dafoe, documenta la genesi dello spettacolo teatrale attraverso il sapiente accostamento di riprese delle prove e interviste ai creatori. Il risultato è un documentario artistico, Bob Wilson's Life & Death of Marina Abramovic, rivelatore senza diventare mai pedante. Come lo spettacolo che ne è oggetto, anche il film della Colagrande sembra generarsi spontaneamente dalle testimonianze dei suoi protagonisti, dalle loro parole evocative, capaci di chiarire dubbi, di rendere esplicite simbologie e caricature. Curiosamente la Abramovic sceglie di farsi rappresentare da tre uomini, l'energico Wilson, il duttile Dafoe e lo straordinario cantante Antony Hegarty, leader del gruppo Antony & the Johnsons, perché come ammette lei stessa "nessuno meglio di loro avrebbe potuto rappresentare la mia vita in scena". Le interviste si integrano alla perfezione con le incredibili riprese del palco su cui una ieratica Abramovic assiste imperterrita alla messa in scena del suo passato che si concretizza di fronte al pubblico grazie alle immagini di Wilson, alle parole concitate di Willem Dafoe e alle musiche struggenti di Antony.
Bob Wilson's Life & Death of Marina Abramovic riesce a rendere giustizia di uno spettacolo ricchissimo che si compone frammento dopo frammento, con un nutrito coro di ballerini e cantanti a far da contorno agli attori principali. La pesante influenza che i genitori hanno avuto sulla piccola Marina viene rappresentata col proliferare di divise indossate, nella realtà, dal padre e dalla madre della Abramovic, partigiani di Tito e poi ufficiali dell'esercito serbo. La stessa madre diviene, in seguito, una strega violenta e autoritaria, figura brutale la cui cupezza si distorce, però, grazie all'humor sottile di Bob Wilson. Grazie all'occhio attento di Giada Colagrande le interviste usate nel film permettono non solo di comprendere a fondo l'essenza dello spettacolo, ma anche di leggere nell'animo degli interpreti. Così il sensibile Antony si lascia sfuggire la sua iniziale perplessità a partecipare, con la sua musica fragile e intimista, a uno show diretto dal virile Wilson e Dafoe riflette sul suo approccio alla recitazione teatrale, ma è ancora una volta la stessa Marina Abramovic a mettersi a nudo nel finale in cui, commossa, rivela il vero senso del funerale che apre e chiude il film. Come lei stessa sostiene, un artista performativo lavora contro se stesso, non può che essere il suo primo nemico né si può permettere di amare il medium teatrale che lo ospita altrimenti si abbandonerebbe all'artificio. Solo la vita, con le sue pene, alimenta l'arte e l'atto finale. la levitazione del suo corpo bianco verso il cielo, altro non è che la speranza di liberarsi del peso delle sofferenze.

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3.0/5