L'amore ai tempi dei mocciosi
Che lo si scusi o no, l'amore raccontato da Federico Moccia -specie quello di quest'ultimo romanzo divenuto il suo esordio alla regia - è il ribaltamento tematico e morale de L'ultimo bacio. E fa un po' impressione, almeno al sottoscritto, vedersi costretto a rimpiangere Muccino e il suo cinema di fronte allo spettacolo mortifero rappresentato da Scusa ma ti chiamo amore. Segno dei tempi? Probabile, fatto sta che qui si celebra l'amore fiabesco transgenerazionale con l'occhio (poco), il cuore (forse) e il cervello (sicuramente) dalla parte dei teenager. Abbiamo Alex, un creativo pubblicitario (Raoul Bova) sulla soglia dei quarant'anni, bello e benestante, devastato da una separazione improvvisa. Tra i suoi amici un collega traditore impenitente, un maniaco ossessivo della gelosia e un noioso bravo ragazzo, tutti mediamente insoddisfatti della loro vita. L'amore però è in agguato sotto le spoglie di Niki, diciassettenne vulcanica che lo tampona con il suo motorino e entra prepotentemente nella sua vita.
E' da quando il personaggio Moccia si è definitivamente affermato come moderno cantore adolescenziale che si dibatte anche eccessivamente se la sua empatia con il mondo dei teenager sia sincera o il risultato di un'abile scelta commerciale. Un'empatia strillata e coercitiva che il più delle volte finisce perfino per mettere tristezza. Ma che non è il vero tema del contendere e nasconde una questione centrale che esula dai risultati di vendita dei suoi libri e dai suoi intenti, ovvero ha Moccia il talento e la capacità di raccontare il mondo di oggi, giovanile o no? A vedere il suo film e a grattarne un minimo la superficie la risposta è drasticamente negativa e non solo per l'assenza di respiro cinematografico o per la rimozione completa della sfera sociale o politica. Scusa ma ti chiamo amore racconta un'adolescenza opulenta e monocorde, di una medietà talmente smaccata da non essere rappresentativa di nulla, nemmeno di quella Roma bene viziata e qualunquista che Moccia ama raccontare con un descrittivismo vuoto e frivolo.
Si parte con la voce off - che fa tanto racconto di formazione - si passa per i soliti lucchetti, le gag fragorose, la Roma in tutta la sua invadente riconoscibilità topografica, e poi i vari e irritanti siparietti scolastici, le lungaggini adolescenziali, fino alle deprimenti riunioni a base di sushi, tradimenti e ipocrisia tra trenta-quarantenni borghesi in cerca d'identità. Nel mezzo un dramma improvviso (e inutile ai fini del discorso narrativo) che si risolve frettolosamente con un risveglio da un coma improbabile grazie alla gnoseologia di Kant e una serie di scorciatoie dal fiato corto, su tutte un utilizzo invasivo e esasperante delle musiche. Per chi non ne avesse abbastanza poi si annoverano alcuni dialoghi involontariamente surreali, la scena d'amore più brutta che si ricordi e una serie di pedanti citazioni letterarie sul tema dell'amore che si presentano in sovraimpressione a volte perfino accompagnate da petali di rosa.