Il sorriso bonario e l'aspetto pasciuto con cui ci accoglie all'interno di una sala della Casa del Cinema di Roma non deve trarre in inganno: a sessantotto anni, Jim Sheridan non solo non sembra aver perso nulla della propria "carica militante", ma si mostra animato da un risentimento profondo e da una disincantata amarezza nei confronti dell'industria dello spettacolo e delle sorti della settima arte.
Sheridan, da quasi trent'anni fra i nomi di punta del cinema irlandese, è l'ospite d'onore della decima edizione dell'Irish Film Festa, dove si accinge a presentare in anteprima il suo nuovo lavoro, Il segreto, già proiettato lo scorso autunno al Festival di Roma e in sala dal 6 aprile per Lucky Red: una trasposizione del fortunato romanzo di Sebastian Barry, la storia di una giovane donna nell'Irlanda degli anni Quaranta e Cinquanta. Interpretato da Rooney Mara, Vanessa Redgrave, Eric Bana e Theo James, Il segreto è l'ultimo tassello, in ordine di tempo, di una carriera che vanta titoli quali Il mio piede sinistro, Nel nome del padre, The Boxer (tutti e tre con Daniel Day-Lewis) e In America, e che ha fatto guadagnare a Jim Sheridan l'Orso d'Oro a Berlino nel 1994 con Nel nome del padre e ben sei nomination agli Oscar.
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Ma fin dall'inizio della nostra conversazione con il regista, Il segreto sembra essere l'ultimo dei suoi pensieri: come un fiume in piena, Sheridan si lancia in un'analisi ad ampio raggio del cinema e della TV odierni da cui trapelano vis polemica e rassegnata sfiducia, e non risparmia dure bordate tanto contro il sistema degli studios hollywoodiani (quegli studios che nel 2011 gli sottrassero il controllo sul montaggio del thriller Dream House) e contro le nuove piattaforme di streaming.
Fra arte e mercato: il cinema è in crisi?
Quali ritiene essere i principali problemi del cinema odierno?
Il cinema non ha speranze contro Netflix e lo streaming... non possiamo competere. Il pubblico dello streaming sta per cambiare davvero le cose: presto tutto verrà doppiato in ogni lingua, mentre ora il doppiaggio esiste solo in Italia e in pochi altri paesi, non in Francia né in Germania. E poi il pubblico ormai guarda tutto sul piccolo schermo o su schermi piccolissimi, come quelli dei cellulari.
Ma pensa che il pubblico anglosassone possa accettare il doppiaggio?
Ieri sera stavo guardando un po' di TV italiana, e ho visto alcuni spezzoni di film: a volte il doppiaggio è buono, altre volte è terribile... e a volte le performance degli attori sono migliori se ascoltate in italiano! Avete alcuni doppiatori davvero bravissimi. Quello che è successo in Europa è che con l'italiano, il francese, il tedesco e il resto non c'è mai stata un'unificazione del mercato. Il vostro mercato è molto più ristretto, non può competere con l'industria americana: per questo l'America ha preso il sopravvento. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, ad esempio, i film americani hanno iniziato ad arrivare in Francia, mentre prima di allora il cinema americano era sotto embargo: questa improvvisa ondata di film dall'America ha dato vita alla Nouvelle Vague. Ma l'arte non può sopravvivere senza l'appoggio del mercato.
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Ritiene che l'arte e il mercato oggi siano necessariamente in contrasto?
A questo proposito, la situazione in America è particolare... pensate a quel film francese, quello con l'uomo sulla carrozzella, Quasi amici: quel film ha incassato cento milioni di dollari in Francia, ed è stato un enorme successo in Germania e in tutto il mondo, ma non in America. Gli americani non sono abituati a vedere i film con i sottotitoli. Vi ricordate le videocassette? Si registravano i nastri quando le reti televisive trasmettevano i film francesi e italiani, ed era difficile procurarsi queste videocassette... a volte arrivavano edizioni straniere doppiate in altre lingue. Non è una coincidenza che per un certo periodo in Europa abbiamo avuto registi come Federico Fellini, François Truffaut, Jean-Luc Godard, Ingmar Bergman, Wim Wenders... e poi nulla: non può essere una coincidenza. Non fraintendetemi: ancora oggi avete grandi registi qui in Italia, per esempio Nanni Moretti, ma in America non sono nomi forti come lo era Fellini. Questo è il problema.
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Fino a poco tempo fa, però, in America c'era un notevole mercato per il cosiddetto cinema arthouse e per i film stranieri: cos'è successo da allora?
Credo che gli studios abbiano smesso deliberatamente di distribuire questi film; al loro posto hanno preferito puntare su grosse produzioni rivolte anche alla Cina e all'India. La gente ha smesso di vedere film del genere e man mano ha perso l'abitudine. È una questione anche geografica: gli immigrati dall'Irlanda, dalla Francia e dall'Italia, soprattutto dalla Sicilia, non dalle grandi città, insieme con le altre minoranze degli Stati Uniti vivono distribuiti lungo le coste, ad esempio la comunità afroamericana a Chicago. Queste persone vivono perlopiù nelle città; tutto il resto, l'entroterra degli Stati Uniti, è abitato da altre persone, e nell'entroterra non arrivano mai i film europei e stranieri, non ci sono mai arrivati. Sulle coste la maggioranza delle persone votano per il Partito Democratico; se pensate alle ultime elezioni, Donald Trump ha vinto grazie ai voti della parte più interna degli Stati Uniti. E il cinema indipendente incassa negli Stati blu, ovvero gli Stati democratici, non negli Stati rossi, quelli repubblicani. È un problema di mentalità e di culture: ci sono due diverse Americhe in America.
Alla fine degli anni Venti un distributore, Joseph Kennedy, non un ebreo ma un irlandese, rilevò uno studio chiamato Pathe. Analizzando i registri della Pathe si arriva esattamente a questa conclusione: certi film non arrivano nell'America dell'entroterra. C'è una sola eccezione, e sapete qual è? I film della Merchant Ivory, quelli diretti da James Ivory: i film sulla società britannica, così come Downton Abbey, o qualunque cosa sui reali inglesi. Sono gli unici prodotti che funzionano anche in quegli Stati. John F. Kennedy aveva già capito questa fascinazione americana per le monarchie inglesi, e infatti quando nel 1960 lui, un cattolico, si candidò alla Presidenza degli Stati Uniti, a teatro andò in scena un musical dedicato proprio a un sovrano inglese, Camelot. In qualche modo, Camelot aiutò Kennedy a vincere le elezioni.
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Cinema, religione e pirateria
Lo spettacolo e la politica sono così legati alla religione?
Assolutamente: e sono affascinato dal cinema come esperienza religiosa, anche se non è una prospettiva che condivido personalmente. Però quando si va al cinema si dice spesso che è necessario credere nella storia, credere nelle interpretazioni... bisogna 'credere', come spiega il concetto di sospensione dell'incredulità. Anche un film, insomma, si basa su un atto di fede. Purtroppo lo stesso sta accadendo con l'informazione: essere informati sta diventando un atto di fede, e la situazione in America si sta radicalizzando sempre di più. E la gente non crede più nel cinema, perché il cinema non riesce più a offrire una mitologia. La dimensione religiosa si percepisce anche nei film stessi: i film cattolici, come quelli di Martin Scorsese, sono basati sui concetti di famiglia e di comunità, mentre quelli protestanti parlano di singoli individui, come Spider-Man e Iron Man. La mentalità protestante è fortemente individualista, come quella di George W. Bush quando ha spinto l'America in guerra contro l'Iraq.
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E non crede che questa forte opposizione culturale possa essere cambiata proprio attraverso realtà come lo streaming, l'home video o addirittura la pirateria?
Le cose cambieranno, ma non per il momento, perché questo contrasto fra le due Americhe si basa proprio sul cosiddetto "narcisismo delle piccole differenze". È la stessa cosa accaduta un secolo fa all'interno del movimento delle suffragette, che si spaccarono in fazioni opposte a causa di piccole differenze, anziché combattere unite contro il nemico comune. Parliamo di pirateria, ma io credo che l'intero sistema sia 'pirateria': guardare Netflix è un atto di pirateria, Steve Jobs è pirateria... il capitalismo è pirateria! Quindi pensare che la pirateria possa contribuire a cambiare il sistema è illusorio, perché l'intero sistema è 'pirata'. Se accendo il computer e vado su YouTube, posso guardare qualsiasi cosa: le case di produzione stipulano contratti con le reti televisive nazionali, offrendo esclusive sui loro prodotti per i singoli paesi, ma poi comunque viene messo tutto su YouTube, che è una compagnia americana, aggirando queste restrizioni. E Netflix, per esempio, è un sistema che ha sfruttato la debolezza degli studios: gli studios non hanno avuto il coraggio di fare fronte comune per dire di no a Netflix.
Con la situazione che ha descritto, com'è ancora possibile realizzare un film?
In questo Irish Film Festival, per farvi un esempio, ci sono due film: Il segreto, che è costato dieci milioni di dollari, e The Young Offenders, che ne è costati solo cinquantamila ma che probabilmente in Irlanda incasserà molto più de Il segreto. Ma è dura per tutti, e gli studios non hanno più bisogno di star: a cosa ti serve una star quando puoi avere Spider-Man? Per Il segreto abbiamo dovuto trovare cinque o sei diverse fonti di finanziamento... è sempre più difficile, molto più che in passato.
Insomma, non vede qualche segnale di speranza?
Le cose cambieranno, ma non so come. Forse quando ci sarà un film che otterrà finalmente un enorme successo sarà possibile far prendere al cinema una nuova direzione.
Nel frattempo accetterebbe di dirigere una serie, magari proprio per Netflix?
Per piazzare una serie su Netflix però hai bisogno di qualcosa che funzioni per il pubblico americano. La BBC? No, non andrebbe bene neanche quella...