Recensione Le luci della sera (2006)

Per infrangere i tabù della solitudine Kaurismäki deve assorbire ogni elemento romantico e rendere la vicenda asettica e quasi impersonale.

Isolato dal buon senso

Koistinen è una guardia giurata. Lavora in un centro commerciale di lusso e abita da solo. Incontra Maria e inizia a frequentarla, ma la donna è solo l'aggancio di una banda di rapinatori che si servono di lui per compiere un furto miliardario e fuggire addossandogli ogni responsabilità.
Finito in prigione, Koistinen dovrà affrontare le conseguenze dell'ingiustizia subita.

Puntata conclusiva della "trilogia del perdente", Le luci della sera è stato presentato al festival di Cannes con buona accoglienza della critica.
Come nei primi due episodi, Nuvole in viaggio e L'uomo senza passato, la storia si concentra su un unico personaggio, rappresentante di una significativa categoria umana. Disoccupato nel primo, senza tetto nel secondo, in questo caso è semplicemente un uomo solo. Uno che vive del suo lavoro, in una casetta da quattro mobili, secondo le antiche leggi di onestà ed onore. Troppo antiche forse per non renderlo facile preda di chiunque decida di far valere la propria personalissima giustizia. Così i banditi, come i teppisti che lo picchiano regolarmente ad ogni incontro, chiunque prevale su di lui che non si oppone mai, ma si piega come un giunco e torna a seguire la sua rotta incrollabile, anche quando chiuso dietro alle sbarre.
Un uomo d'altri tempi, in una città che non riconosce più i suoi abitanti ma che li lascia vivere in anarchia per paura di affrontarli. Un uomo mite e riservato Koistinen, perciò strano: un alieno da bersagliare e da sfruttare perché totalmente inerme, ma proprio per questo affascinante per la sua coerenza che non diventa mai arrendevolezza. Egli continua ad agire secondo una morale inconfutabile benchè sconosciuta alla società in cui vive, senza lasciarsi mai contaminare.
E' questa purezza che rende per contrasto così orribili i personaggi di contorno, fra i quali Maria, tanto arida ed insensibile da diventare brutta agli occhi dello spettatore: una delle più algide dark ladies della storia del cinema.
Lei, come i suoi complici, agiscono indisturbati e decidono delle sorti di Koistinen, senza scrupoli, diventandone il solo destino.
Un destino già scritto dalla chiusura mentale di lui e dalla convinzione di essere solo, che ne deriva.

Un finale stabilito e prevedibile, se non ci fosse quella scintilla, quella considerazione che ne riapre le sorti e lo risolleva dal torpore nella nuova consapevolezza che nessuno è mai veramente solo. La solitudine, l'isolamento, nascono da una condizione mentale, la sua, che chiude gli uomini in singole gabbie anche in mezzo alla folla. Aki Kaurismäki infrange questo tabù con la decisione di un grido sordo che risveglia Koistinen e le coscienze, ma per farlo deve assorbire ogni elemento romantico e rendere la vicenda asettica e quasi impersonale.
Così i dialoghi ridotti all'essenziale esprimono il rumore echeggiante della solitudine. La mancanza di dialogo fra i personaggi, se non poche frasi indispensabili a chiarire la scena, l'ambientazione desolata e desolante, esprimono sonoramente e visivamente il disagio in cui Koistinen vive ed abita. Una città ricca, un quartiere di lusso ed al loro interno, come in un gioco di scatole cinesi, una casa modesta abitata da un uomo solo. Coperte sfarzose a coprire un guscio vuoto e privo di emozioni, fin quando ormai allo stremo dell'umana sopportazione emotiva, scopre che il gelo dentro è alimentato dal suo isolamento interiore.

Un film non semplice, duro da seguire per le lunghe scene quasi senza dialogo e per l'angoscia che lasciano serpeggiare nello spettatore, ma al tempo stesso un film che reagisce all'ineluttabilità del male che vince sul bene ma che riscatta chi è ingiustamente punito, se non civilmente, almeno come riscoperta personale di sé stesso.

Encomiabile la colonna sonora che mantiene sospesi fra le note del tango ed accarezzati dalle voci dei maestri Carlos Gardel e Olavi Virta.