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La penombra di un night club, un pianoforte, una tenda rossa sullo sfondo e, in primo piano sul palco, la silhouette slanciata ed elegante di una giovane donna che si volta verso il pubblico intonando Blue Velvet. La voce di Isabella Rossellini scivola bassa e languida lungo la melodia della canzone di Bobby Vinton che dà il titolo a una delle opere più celebrate di David Lynch, offrendo al contempo un'immagine - quella di Dorothy Vallens nei panni di una malinconica chanteuse - entrata a far parte dell'iconografia del cinema americano degli anni Ottanta, insieme ad altri momenti indelebili del film (Jeffrey Beaumont intento a spiare tra le fessure di un armadio o Frank Booth con l'inalatore sul volto). Dorothy, la "donna del mistero" di Velluto blu, costituisce del resto una delle creazioni più memorabili di Lynch, emancipandosi dalla tradizione delle femme fatale del noir classico per rivendicare una singolarità tale da renderla un personaggio assolutamente unico.
Benvenuti a Lumberton: David Lynch e il ritorno al thriller
È il 19 settembre 1986 quando nelle sale americane fa il suo debutto Velluto blu, dopo la presentazione ai Festival di Montréal e di Toronto e il rifiuto sdegnato della Mostra di Venezia. Per David Lynch, questo progetto segna un ritorno nei territori del thriller e del grottesco dei suoi esordi (Eraserhead, 1977) e arriva dopo due titoli realizzati su commissione, ma con esiti diametralmente opposti: il capolavoro The Elephant Man (1980), ispirato alla vera storia di Joseph Merrick, e il controverso kolossal di fantascienza Dune (1984), tratto dal romanzo di Frank Herbert. In Velluto blu, prodotto e distribuito da Dino De Laurentiis, la rappresentazione dei segreti nascosti dietro l'apparente idillio della vita di provincia ha un impatto poderoso sulla critica e sul pubblico, suscitando un certo scandalo ma anche una notevole dose di entusiasmi; la reputazione del film non farà che crescere con il tempo, pure sull'onda del fenomeno televisivo Twin Peaks, fino a guadagnarsi lo statuto di culto.
Ideato a partire da un raccapricciante dettaglio, un orecchio umano abbandonato in un campo, e dalle suggestioni di Blue Velvet, brano di Tony Bennett diventato un successo discografico per Bobby Vinton nel 1963, Velluto blu è imperniato sull'indagine condotta da Jeffrey Beaumont (Kyle MacLachlan), studente universitario che fa ritorno nella natia Lumberton, fittizia cittadina del North Carolina, e con l'aiuto della coetanea Sandy Williams (Laura Dern) si adopera a scoprire la fosca verità dietro quell'orecchio mozzato. Jeffrey finisce così per introdursi nell'appartamento di Dorothy Vallens, cantante di night club legata a doppio filo a Frank Booth (Dennis Hopper), un selvaggio psicopatico che la tiene sotto scacco e che sembra gestire l'intero sottobosco criminale di Lumberton. L'incontro con Dorothy segnerà dunque, per Jeffrey, l'ingresso in una realtà oscura e mostruosa, ma dotata di una sinistra capacità di attrazione.
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La femme fatale di Isabella Rossellini
Se il canadese Kyle MacLachlan, già diretto da Lynch in Dune, appare da subito la scelta più ovvia per la parte di Jeffrey, mentre il ruolo di Frank contribuisce a rilanciare la carriera dell'ex easy rider Dennis Hopper, meno scontato è il casting di Isabella Rossellini. Nata a Roma nel 1952, figlia d'arte di Roberto Rossellini e Ingrid Bergman, negli anni Settanta Isabella lavora come reporter televisiva, dividendosi fra l'Italia e gli Stati Uniti; in seguito inizia una fortunatissima carriera da fotomodella, viene ingaggiata come testimonial della Lancôme e nel frattempo fa coppia con Martin Scorsese, con cui rimane sposata per tre anni. Nel 1986, insomma, è facile trovare la Rossellini sui manifesti pubblicitari o sulle copertine delle più prestigiose riviste di moda; il suo curriculum da attrice, al contrario, comprende appena quattro titoli, l'ultimo dei quali è il dramma sentimentale Il sole a mezzanotte di Taylor Hackford, del 1985.
Per David Lynch, pertanto, è un azzardo affidare a un'attrice con così poca esperienza il personaggio più complesso di Velluto blu; ma dopo aver tentato invano di scritturare Helen Mirren, Lynch si convince che Isabella Rossellini sia la più adatta a prestare volto e voce a Dorothy Vallens. La sua scommessa sarà ripagata in pieno: la Rossellini disegnerà infatti una delle figure più fascinose e conturbanti del cinema lynchiano e verrà ricompensata con l'Independent Spirit Award come miglior attrice. L'archetipo della "fanciulla in pericolo" e quello della dark lady si fondono, con Dorothy, in un amalgama del tutto peculiare: una femme fatale sfuggente e indefinibile, in cui gli echi del passato (inclusa l'omonimia con la protagonista de Il mago di Oz) sono contaminati da una spregiudicatezza modernissima e da un elemento di perversità che esplode sullo schermo con forza dirompente, e che non a caso sarà la "pietra dello scandalo" per molti detrattori del film.
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Da sirena della notte a bambola sfiorita
Dorothy Vallens è innanzitutto la chanteuse: a lei spetta l'esecuzione di Blue Velvet, dopo che la registrazione originale di Bobby Vinton aveva accompagnato in forma extradiegetica il magistrale incipit del film, dal cartello "Benvenuti a Lumberton" all'improvviso malore del padre di Jeffrey. L'arrangiamento di Angelo Badalamenti (che compare in un cameo come il pianista del night club) conferisce al brano una dimensione sognante ed eterea, accentuata dalla voce carezzevole della Rossellini in una performance a cui avrebbe poi reso omaggio, nel 2012, la cantante Lana Del Rey. Sul palco dello Slow Club, la sua Dorothy è una visione d'altri tempi, una sirena della notte che cattura l'attenzione di Jeffrey; impossibile non pensare alla Julee Cruise che, quattro anni dopo, animerà con le sue esibizioni la Roadhouse di Twin Peaks, o la Rebekah Del Rio che intona la struggente Llorando in playback nel Club Silencio di Mulholland Drive.
Qualche minuto più tardi ritroveremo Dorothy nella penombra del suo appartamento, ma attraverso lo sguardo di Jeffrey, chiuso dentro un armadio. Il voyeurismo del ragazzo, che si estende allo spettatore, mette a nudo la vera natura di Dorothy dietro l'incantesimo del palcoscenico: una donna fragile e sola, che si abbandona sul pavimento e si sfila di dosso la folta parrucca corvina, con gesti incerti che ne tradiscono l'indicibile disperazione per la sorte del marito e del figlioletto. Tornano in mente le parole con cui Alessandro Manzoni descriveva la monaca di Monza: quella "impressione di bellezza, ma d'una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta". È la prima deviazione dall'archetipo: la Dorothy di Isabella Rossellini è una femme fatale che depone la propria maschera di perfezione, rivelando la sua angoscia divorante e, di lì a poco, la nevrosi sadomasochistica.
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Quell'oscuro oggetto del desiderio
Pubblicizzato all'epoca in primis come un thriller erotico, sull'onda di un popolare filone del cinema degli anni Ottanta, Velluto blu è in effetti anche un film sull'erotismo, nella sua declinazione più morbosa ed estrema; e la Rossellini, icona glamour del mondo della moda, riesce nell'impresa di trasformare la propria immagine in un "oggetto del desiderio" di tutt'altro tipo. Quando scopre la presenza di Jeffrey, Dorothy impugna un coltello e costringe il ragazzo a spogliarsi, per poi praticargli una fellatio: da vittima debole e passiva, la donna assume di colpo il ruolo dominante di dark lady, ma il suo atteggiamento indignato e minaccioso sfocia quasi subito in un torbido gioco erotico. Si tratta però di un passaggio repentino, indefinibile, ed è la Rossellini a renderlo tale, con una recitazione in cui enfasi e straniamento si combinano senza soluzione di continuità. Dorothy è lì, ma allo stesso tempo è altrove, e questo dissidio viene portato a galla dall'attrice italiana con un'abilità stupefacente.
C'è un altro momento-chiave nella vicenda di Dorothy: è in prossimità del finale, prima della resa dei conti con Frank. Jeffrey e Sandy sono reduci da una serata romantica ma vengono accerchiati da un gruppetto di giovani con intenti bellicosi, quando dalle tenebre si materializza la figura nuda e barcollante di Dorothy, che in preda al delirio si rifugia tra le braccia di Jeffrey. Devastata dalle violenze di Frank, Dorothy è ormai una bambola in frantumi; "Mi ha attaccato la sua malattia", dichiara con voce strozzata (ma in originale, "He put his disease in me", la frase è ancora più inquietante). Una bambola su cui Jeffrey stesso ha esercitato le proprie fantasie di sadismo, in una perdita dell'innocenza propedeutica al suo confronto con il "lato oscuro", incarnato dal temibile Frank. Di questa perdita dell'innocenza, Dorothy è tanto il simbolo quanto lo strumento; la "fanciulla in pericolo" che suscita nell'eroe impulsi inconfessabili, ma che nell'epilogo suggella l'uscita dall'incubo sulle note di quell'ultimo verso struggente: "And I still can see blue velvet through my tears".