Intervista a Kiyoshi Kurosawa

Nell'ambito della rassegna "Asiatica Film Mediale", svoltasi dal 20 al 28 novembre a Roma, abbiamo incontrato il regista Kiyoshi Kurosawa, tra i più importanti autori della cosiddetta new-wave giapponese, che a Roma ha presentato il suo ultimo film "Doppelganger".

Nell'ambito della rassegna Asiatica Film Mediale, svoltasi dal 20 al 28 novembre a Roma, abbiamo incontrato il regista nipponico Kiyoshi Kurosawa, tra i più importanti autori della cosiddetta new-wave giapponese, che a Roma ha presentato il suo ultimo film Doppelganger. Cordiale e disponibile, il regista ci ha parlato dei film che, tra la fine degli anni '90 e l'inizio del decennio successivo, lo imposero all'attenzione della parte più attenta del pubblico e della critica occidentali, e ha risposto inoltre alle nostre curiosità sulla sua ultima opera.

Con quali registi lei si è "formato" cinematograficamente, e quali sono stati quelli che l'hanno maggiormente influenzata?

Devo dire che in Giappone non ci sono registi con cui ho lavorato direttamente, e di cui possa dirmi realmente "discepolo". Solo di uno sono stato assistente, agli inizi della mia carriera, e da lui posso dire di aver appreso tantissimo: si tratta di un regista poco conosciuto all'estero ma famosissimo in Giappone, di nome Shinji Soomai, venuto purtroppo a mancare due anni fa, a soli 50 anni. Da spettatore, comunque, ho visto film di moltissimi registi, e da tutti posso dire di aver imparato qualcosa: sono un'infinità ed è impossibile citarli tutti, ma se devo parlare di un cinema in particolare, cito quello americano degli anni '70: è, quello, un cinema che ho sempre amato e che mi ha influenzato moltissimo nel mio lavoro.

Il genere con cui lei si è fatto conoscere tra la fine degli anni '90 e l'inizio del decennio successivo è stato l'horror, con pellicole come Cure, Seance e Kairo. Il suo stile, tuttavia, si differenzia abbastanza da quello degli altri registi della new-wave giapponese, con un'impostazione maggiormente filosofica e, se così si può dire, "esistenzialista". E' d'accordo?

Intanto vorrei ringraziarla per la sua riflessione, visto che ha usato aggettivi così importanti per il mio cinema. E' da dire comunque che il mio obiettivo iniziale non è quello di fare film filosofici o esistenzialisti, ma piuttosto di riflettere su un tema preciso, che è quello della morte: un tema da sempre molto legato al genere horror, e che da sempre porta con sé una serie di riflessioni abbastanza impegnative. E' per questo, forse, che i miei film possono apparire più profondi o filosofici rispetto ad altri.

E' un caso che in Kairo il "contagio" parta dalla rete? Lei vede Internet (e la tecnologia in genere) come una potenziale fonte di solitudine ed alienazione, per i giovani giapponesi? Kairo è stato girato nel 2000, e in questi quattro anni il mondo di Internet è cambiato enormemente: allora mi ponevo il problema che la rete "unisse" persone tra loro lontanissime, individui residenti in ogni parte del mondo che venivano in un attimo collegati attraverso Internet. Una comunione che genera terrore, perché crescendo il bacino degli utenti che possono scambiarsi informazioni, cresce anche la possibilità di influenza reciproca e di conseguenza la possibilità di trasmettere il male. Ora, quattro anni dopo, tantissime cose sono cambiate nel mondo di Internet, e quello che più mi spaventa adesso, invece, è l'enorme volume delle informazioni che ci si possono trasmettere: in pochissimi minuti un singolo utente può ricevere un numero enorme di informazioni, tale da rendere dispersiva e confusa la comunicazione, e da impedire di fatto la reale conoscenza . Il numero eccessivo delle informazioni raggiungibili, quindi, è a mio parere, in un certo senso, il veleno della Internet attuale.

In film come Charisma e Cure è molto forte il tema del contrasto tra l'individuo e le istituzioni, con il sottinteso che la natura umana, liberata dai condizionamenti sociali, diventa potenzialmente distruttiva. E' un'interpretazione corretta?

Io non so dire se la sua interpretazione sia corretta o meno: posso dire che la apprezzo, perché indica che lei ha visto i due film in questo modo, e quindi c'è sicuramente un fondo di verità. In Cure e Charisma, a mio parere, c'è sicuramente un contrasto tra l'individuo e un'altra entità: questa entità, però, non è rappresentata soltanto dalle istituzioni, ma dal mondo in generale, che comprende sì le istituzioni, ma anche, per esempio, la famiglia e la natura.

Come è nata l'idea di Doppelganger? Quello del "doppio" è un tema piuttosto abusato, sia dalla letteratura che dal cinema: non era facile affrontarlo da un punto di vista nuovo, diverso.

Con Doppelganger, in effetti, ho voluto fin da subito prendere le distanze dal tema del "doppio" per come è inteso sia nella psicologia che nella letteratura: mi affascinava, piuttosto, l'idea di avere sullo schermo due individui completamente uguali, ed esplorare la reazione di una persona che si trova davanti un individuo identico a sé, lo guarda negli occhi e non prova solo paura, ma anche qualcosa di diverso.

In Doppelganger c'è un uso frequente dello split-screen, espediente che fu molto caro a Brian De Palma. Quali sono i motivi di questa scelta?

L'uso dello split-screen si rifà sicuramente a De Palma, ma non solo: io apprezzo moltissimo l'uso di questa tecnica nel cinema americano degli anni '60 e '70, ricordo che negli anni del liceo, quando iniziai ad appassionarmi al cinema americano e a vederne in grande quantità, ero enormemente affascinato da questo sistema di ripresa e sognavo di utilizzarlo, in futuro, in un mio film. Con Doppelganger ci sono finalmente riuscito, principalmente grazie al digitale: senza di esso, infatti, non avrei mai potuto usare questa tecnica in un mio film, principalmente per ragioni economiche.

In questo film ritorna Koji Yakusho, che è un po' il suo attore "feticcio". Lui può forse essere considerato il suo "doppio" cinematografico?

Io e Koji Yakusho, in effetti, abbiamo la stessa età, e, cosa ancora più importante, lo stesso modo di vedere le cose, gli stessi valori. Con lui lavoro molto bene, in quanto i protagonisti da me creati, che si traducono sempre in uomini di mezza età con quel tipo di impostazione culturale, sono perfettamente adatti alla sua personalità. Per meglio spiegare la generazione alla quale entrambi apparteniamo, posso portare due termini di paragone: il primo è rappresentato dal regista Yoichi Sai, presentato nel corso di questa rassegna, che appartiene a una generazione che era interessata alla politica, e il cui interesse si rifletteva nei film; due generazioni dopo, abbiamo avuto i cosiddetti otaku, persone che fanno del proprio hobby il loro modello di vita, che per esso vivono e che non hanno altri interessi al di fuori di esso, tantomeno la politica. Noi apparteniamo alla generazione che sta in mezzo a queste due, e che non aveva punti di riferimento, né in ideali politici né in interessi particolari.

Come vede la situazione attuale del cinema nipponico, e la sua possibilità o meno di diffondersi in occidente? Che possibilità ci sono, per registi come lei o Takashi Miike (il cui primo film distribuito nel nostro paese è stato il recente The Call - Non rispondere) , di uscire dallo status di registi "di culto" per trovare un'adeguata distribuzione anche dalle nostre parti?

E' da dire che io, Miike e Shinya Tsukamoto non facciamo certo parte del circuito delle major, non abbiamo alle spalle grosse case di produzione: apparteniamo al contrario ad un piccolo gruppo di registi che fanno cinema indipendente. Non siamo noi, quindi, ad avere la possibilità di portare il cinema giapponese all'estero: è, questo, un compito che non spetta a noi. E' da sottolineare anzi che io e Miike (lui, forse, ancora più di me) attualmente siamo più conosciuti all'estero, come registi "di culto", di quanto non lo siamo in Giappone. Io non posso parlare a nome suo, ma per quanto mi riguarda, vorrei continuare a fare un cinema, non importa se a basso costo, che sia visto in tutto il mondo, non solo in Giappone: in questo senso, quindi, la situazione attuale va benissimo. Inoltre è da dire che in Giappone, se un regista dirige un film che non ha un sufficiente riscontro di pubblico, quasi sempre non riesce poi a reperire i fondi per il film successivo: in questo senso, quindi, io, che so di fare un cinema che non potrà mai avere un grosso successo commerciale in Giappone, sono aiutato dal fatto che i miei film circolino e vengano visti in tutto il resto del mondo.

Cosa ne pensa dell'ondata di remake di pellicole orientali che si sta abbattendo su Hollywood? Non molto tempo fa si parlava, tra l'altro, delle versioni occidentali di Cure e Kairo.

La tendenza al remake è stata sempre, in qualche modo, una caratteristica propria del cinema americano: ultimamente questa tendenza si è concentrata sul cinema orientale in quanto il pubblico americano spesso non conosce i nostri film, e quindi per le case di produzione è molto facile riproporre soggetti già pronti contando appunto sulla non conoscenza da parte del pubblico. Io lo vedo come un fenomeno abbastanza negativo, comunque: da appassionato di cinema americano, io spero che dal loro cinema vengano fuori idee originali, visto che hanno i mezzi e le persone per proporle, piuttosto che semplici riproposizioni di soggetti altrui.

Quali sono i suoi progetti futuri?

Il mio prossimo film è in gran parte già pronto, probabilmente finirò di girarlo già entro quest'anno: non posso ancora rivelare nulla del contenuto, ma posso dire, per ricollegarmi al discorso precedente, che è un film girato utilizzando capitali stranieri, strada, questa, che io vorrei battere anche in futuro: nella fattispecie, i capitali in questione vengono dalla Corea.