Il finale di Indiana Jones e l'ultima Crociata, con Indy e suo padre che cavalcano verso il tramonto, dopo aver trovato il Graal ed essersi guadagnati l'illuminazione - almeno nel caso di dottor Jones senior -, è perfetto. I colori, l'inquadratura, la tensione emotiva: in quel momento Indiana diventa il custode dell'avventura, uno spirito impossibile da uccidere, nato insieme al primo essere umano. Difficile fare non solo di meglio, ma anche avvicinarsi a quella conclusione. Anche perché oggi lo spirito d'avventura si è affievolito, impolverato, impigrito dietro a schermi che ci permettono di vedere ed essere contemporaneamente in ogni parte del mondo senza andare fisicamente lì. Ma la scintilla c'è sempre. Ecco perché scrivere la recensione di Indiana Jones e il quadrante del destino è più che parlare di un semplice film.
Personaggi come quello che Harrison Ford interpreta da 40 anni sono icone: il cappello più famoso della storia del cinema è l'essenza stessa dell'avventura. Viene dato al giovane Indiana da un contrabbandiere, lo vediamo sempre nell'Ultima Crociata, e da quel momento diventa il suo alter ego: si piega, vola, è colpito da pioggia battente. Ma non si stacca mai dal suo proprietario. In un passaggio di testimone ideale, dovremmo vedere Indy dare il suo cappello a qualcun altro, tramandando così l'avventura.
Non è successo nel quarto capitolo della saga creata da George Lucas e Steven Spielberg, Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, uscito ormai nel 2008, un tassello che purtroppo non è all'altezza di una trilogia praticamente perfetta. La domanda che quindi tutti si fanno è: succede in Indiana Jones 5? Ovviamente non ve lo sveliamo. Una consegna di chiavi, o meglio di telecamera, c'è però stata: a dirigere non è più Spielberg, ma James Mangold. E si vede. In sala dal 28 giugno, Indiana Jones e il quadrante del destino è stato presentato in anteprima mondiale al 76esimo Festival di Cannes.
Indiana Jones e il quadrante del destino: il trailer
Indiana Jones e il quadrante del destino: trama
La trama di Indiana Jones e il quadrante del destino torna nel passato: è il 1944, Indiana Jones - un Harrison Ford ringiovanito con la computer grafica in modo credibile ma non perfetto - sta cercando una reliquia: la lancia di Longino, con cui Gesù è stato trafitto nel costato. È in mano ai Nazisti che, come sappiamo, l'archeologo odia intensamente. In una scena ambientata su un treno, un classico della saga, Indy si finge uno dei suoi acerrimi nemici, per mettere le mani sull'oggetto e salvare l'amico Basil Shaw (Toby Jones). Si tratta in realtà di un classico McGuffin: il vero manufatto simbolo di questo capitolo è infatti "il quadrante del destino" del titolo, appunto, ovvero la "macchina di Antikythera", inventata da Archimede, che permette di prevedere fratture nello spaziotempo.
L'importanza del meccanismo non sfugge a Jürgen Voller (Mads Mikkelsen), fisico che, 20 anni dopo, contribuirà a mandare l'uomo sulla Luna. Ed è proprio nella New York del 1969, in pieni festeggiamenti per l'impresa dell'Apollo 11, che ritroviamo il professor Jones. Ormai anziano e prossimo alla pensione, ha appeso il cappello, e quindi l'avventura al chiodo (anzi, l'ha nascosto sotto il letto insieme alla frusta). Alla radio ci sono i Beatles e Space Oddity di David Bowie e, mentre una volta le studentesse si scrivevano "I love you" sugli occhi, ora alle sue lezioni ci sono solo giovani distratti e svogliati.
C'è ormai un gap generazionale, incarnato dal personaggio di Helena Shaw (Phoebe Waller-Bridge), figlia di Basil, di cui Indy è il padrino: la donna ha messo la propria conoscenza di culture e lingue antiche al servizio del capitalismo, diventando una trafficante di reliquie. Per inseguire lei, il nostro si trova a dover di nuovo saltare da un mezzo all'altro (c'è di tutto: da navi a cavalli, passando per aerei e relitti in fondo al mare) e da un continente all'altro. E, come nella migliore tradizione del genere, il viaggio è in realtà un pretesto per conoscere se stessi. Tutti i protagonisti devono infatti capire chi sono in rapporto al grande antagonista della saga: il tempo.
Indiana Jones 5: il tempo come antagonista
I primi tre film di Indiana Jones sono stati fatti in un periodo magico: negli anni '80 Steven Spielberg era al massimo della sua "fase meraviglia". Poi si è incupito, è diventato più serio, entrando in una nuovo periodo della sua carriera. I film di Indiana Jones, così come E.T. l'extra-terrestre, sono pieni di entusiasmo e un pizzico di follia. Non si spiegano altrimenti scene spericolate e piene di inventiva come il numero musicale all'inizio di Indiana Jones e il tempio maledetto, quella del cuore offerto a Kali Ma e della cena a base di insetti. Per non parlare di quella dell'incendio che coinvolge padre e figlio in L'ultima crociata, o di quel capolavoro di ironia e tensione in I predatori dell'arca perduta, in cui un nazista tira fuori quello che sembra uno strumento di tortura che si rivela essere una stampella.
Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo: perché (ri)valutare il capitolo più incompreso
È vero, confrontarsi con Steven Spielberg, l'uomo che sa sempre mettere la macchina da presa nel punto non solo migliore, ma inaspettato, è difficilissimo. James Mangold è un buon regista, ma non ha la stessa genialità. Guardando la scena sul treno, con meno personalità di quanto ci abbia abituato Spielberg, si capisce immediatamente la differenza. E in effetti Mangold, più che fare un nuovo film di Indiana Jones, cerca di fare un film "alla Indiana Jones": non ci sono davvero idee nuove in Il quadrante del destino, ma piuttosto una riproposizione fedele di quanto visto nella saga, con strizzate d'occhio ai fan, citazioni e rimandi alle prime tre pellicole. Sì, anche Indiana Jones 5 cade nella trappola della nostalgia. Laddove invece la forza dell'archeologo avventuriero è sempre stata usare il passato per creare qualcosa di nuovo, mai visto, imprevedibile.
Manca il vero genio in questo Indiana Jones 5, sostituito da mezzi tecnologici si più avanzati e imponenti, che però, paradossalmente, limitano il film. In passato Indy viveva di momenti magari realizzati in modo più artigianale, ma meno meccanici, standardizzati, ripetitivi. Il film nel complesso funziona (anche se alcune delle scene d'azione, tutte molto simili tra loro, come quella in fondo al mare con un Antonio Banderas sprecato, finiscono per appesantire il ritmo, altro grande punto di forza della saga, nella parte centrale), ma la magia si è persa. Adesso sono non solo i chilometri, ma anche gli anni. C'è sempre la fortuna, ma meno gloria.
Si cade nella trappola della nostalgia
Detto questo, Harrison Ford, nonostante abbia 80 anni, è in gran forma e la musica di John Williams è, come sempre, impagabile. Si comportano bene anche Phoebe Waller-Bridge, ironica e con tempi comici perfetti, e Mads Mikkelsen nel ruolo del villain. Certo è che sono stati entrambi scelti per interpretare esattamente il tipo di personaggi con cui sono entrati nell'immaginario collettivo: Waller-Bridge continua a inserire variazioni della protagonista di Fleabag in ogni progetto, mentre Mikkelsen ormai non deve nemmeno più impegnarsi a fare il cattivo gelido e geniale, che guarda di sottecchi con un'espressione enigmatica.
D'altra parte lo dice lo stesso Indiana all'amico storico Sallah (John Rhys-Davies), anche lui trasferitosi nella Grande Mela, ma con una malinconia perenne per il deserto dorato: questa non è un'avventura. È un viale dei ricordi e un addio. E proprio nella scena finale, in cui anche il più duro dei cinici non può che commuoversi, forse c'è il momento più genuino di questo quinto capitolo, che fino a quel momento si preoccupa principalmente di omaggiare un passato glorioso e cancellare quanto fatto di poco gradito nel quarto. E allora sì, salutiamo con affetto questo personaggio che incarna la pura essenza del cinema, immaginandolo finalmente in quella che, come dice il Peter Pan cresciuto di Robin Williams in un altro film di Spielberg, Hook, può essere un'avventura meravigliosa: vivere.
Conclusioni
Come scritto nella recensione di Indiana Jones e il quadrante del destino, questo quinto capitolo di Indiana Jones cerca di omaggiare in ogni modo i primi tre film della saga, cadendo nella trappola della nostalgia, cercando contemporaneamente di cancellare quanto fatto di poco gradito nel quarto. Harrison Ford, nonostante abbia 80 anni, è ancora perfetto per il ruolo e le musiche di John Williams sono sempre impagabili. A mancare è la genialità di Steven Spielberg e quella magia, probabilmente irripetibile, di fare qualcosa di sempre nuovo e inaspettato utilizzando il passato. Nel complesso funziona, ma i fasti dei film anni '80 sono lontani.
Perché ci piace
- Harrison Ford: Indiana Jones sarà sempre e soltanto lui.
- La colonna sonora di John Williams.
- Phoebe Waller-Bridge e Mads Mikkelsen sono dei bravi comprimari, anche se interpretano entrambi il tipo di ruolo per cui sono diventati famosi.
- Il finale non può non commuovere anche il più cinico degli spettatori.
Cosa non va
- La regia di James Mangold non è quella di Steven Spielberg.
- Si cade nella trappola della nostalgia e dell'omaggio.
- La tecnologia paradossalmente rende più standardizzata una saga amata per la sua originalità.