C'è un passaggio nel documentario Il regno dei sogni e della follia di Mami Sunada in cui Hayao Miyazaki parla con Toshio Suzuki, produttore fondatore dello Studio Ghibli insieme al cineasta, Yasuyoshi Tokuma e, in qualche modo, Isao Takahata (anche se quest'ultimo, in piena linea con il personaggio, non volle mai assumere incarichi dato che "gli autori non dovrebbero assumere ruoli dirigenziali"). I due facevano il punto di un lavoro lungo 50 anni e arrivato, in quel momento, al termine. Le coordinate temporali del colloquio risalivano infatti al periodo di lavorazione di Si alza il vento, all'epoca ultimo lavoro annunciato di Miyazaki, e titolo che andava in parallelo a La storia della Principessa Splendente, che fu l'ultima opera di Paku-san, caratterizzata dalla produzione più lunga e dai costi elevati, mai sperimentati per un film di animazione in Giappone. Insomma, un dialogo che segnava la fine di un'era.
Sostanzialmente in quel frangente il Maestro Miyazaki tirava le canoniche somme del mondo creato nel corso di mezzo secolo con i suoi collaboratori, denunciando un sostanziale fallimento degli intenti che ne hanno mosso la costruzione, affermando che andare in pensione sarebbe stata una sorta di liberazione. Per lui era divenuto semplicemente insopportabile anche solo pensare di dedicarsi ad un'altra creazione: i film sono come i figli, una volta nati hanno una vita propria, che si impone sempre su quella di coloro che gliel'hanno donata. Nonostante questo, dieci anni dopo è arrivato Il ragazzo e l'airone (qui la recensione).
Ancora, una gestazione molto lunga. L'annuncio, arrivato in un momento leggendario del documentario di Kaku Arakawa, Never-Ending Man: Hayao Miyazaki, risale al 2016, ma la produzione partì solo tempo dopo. Una produzione di 5 anni, tra variazioni sulla tecnica di animazione, pandemia e ripensamenti di Miyazaki stesso, il quale, dandosi sempre l'obiettivo di fare film per bambini (motivo per cui odia Porco Rosso, che a suo dire non lo è), si è costantemente specchiato nel suo lavoro artistico, utilizzando se stesso come catalizzatore di malesseri, necessità e idiosincrasie di un Paese che ha attraversato nel XX Secolo una trasformazione sociale e culturale disarmante. Come ha raccontato anche Yasujirō Ozu in un momento subito precedente al Maestro dell'animazione. Forse per questo, arrivato nel 2000, Miyazaki si è permesso di mettere da parte i fattori sociali e ha deciso di concentrarsi totalmente sul suo mondo interiore e sulla funzione della sua arte, staccandosi anche dal filtro del biopic di Si alza il vento. Un'eco di quella conversazione con Suzuki di 10 anni fa.
Il ragazzo e l'airone: i valori artistici dello Studio Ghibli
La fine di Laputa - Castello nel cielo, primo film dello Studio Ghibli (che non è Nausicaä della Valle del vento, come spesso capita di leggere) si chiudeva con un satellite verde di un'antica civiltà che si staccava definitivamente dall'orbita terrestre per andare nello spazio. Metafora di una forza, un connubio creativo che finalmente si librava alto nel cielo. Ne Il ragazzo e l'airone questa forza, sotto forma della torre (di Bollinghen) sede dell'universo / voliera a cavallo tra più realtà e rappresentante il mondo interiore di Mahito / Miyazaki, torna sulla Terra, si schianta come un satellite, infrangendosi sulla vita della famiglia Maki. E il Ghibli, per come lo abbiamo conosciuto quando è partito, non c'è più.
Ora è il teatro di un mondo in guerra, sede di un riciclo di vita e morte in cui gli ultimi sono imprigionati e costretti a macchiarsi di peccati che prima di tutto uccidono loro stessi. Un mondo oscuro, in balia di potenze positive e negative in cui si possono ritrovare tanti elementi iconici dei lavori dello Studio, componenti di quella che ha tutte le sembianze di una tomba. Una sorta di grande sepolcro, quasi un altare funerario, magari issato in nome proprio di Takahata, prima mentore e poi più stretto riferimento di Hayao Miyazaki, mancato nel 2018 e dunque in qualche modo ricercato anche nel lutto per il Maestro, che in ogni suo film si è sempre rifatto alle lezioni imparate da lui nelle opere comuni. Un salto nel buio, trasfigurato nella scomparsa della sua più grande fonte di creatività artistica, al quale Miyazaki decide di affidarsi al nuovo, riconoscendo alla morte un valore vitale fondamentale.
Così, ne Il ragazzo e l'airone. lo Studio Ghibli compie la sua personalissima catabasi junghiana. Attraverso il viaggio di Mahito nell'inferno del suo prozio lo studio metaforicamente muore e poi riprende vita, completando anche il percorso iniziato con Si alza il vento. Se volete una prova in più basti guardare ai titoli di coda de Il ragazzo e l'airone, i quali indicano la pellicola come la prima per la quale lo studio si appoggiato in modo molto concreto ad altre entità produttive, come Studio Ponoc, Studio Chizu, Studio 4°C, Studio Cara (Hideaki Anno), Production I.G. e Comix Wave Films.
Il ragazzo e l'airone, la spiegazione del finale: la drammatica bellezza di un mondo squilibrato
Un altro diverso da me
Si alza il vento, tra l'altro, ha nel titolo una citazione alla frase di Paul Valery: "Si alza il vento, bisogna tentare di vivere". Un mantra che si ripete più volte all'interno della pellicola e che accompagna gli snodi fondamentali della trama e della vita Jirō Horikoshi, mentre il primo titolo de Il ragazzo e l'airone è E voi come vivrete?, riferimento al romanzo di Genzaburō Yoshino, che poi compare nel film come lascito della mamma di Mahito, ma totalmente stravolto, vittima di un'appropriazione di violenza quasi disneyana che lo ha trasformato nella storia del protagonista. Un fatto che porta a pensare ad un completamento di un pensiero, anche se, a ben vedere, le estreme conseguenze del discorso di questo film hanno forse più il senso del ribaltamento.
Dopo aver "fallito su tutta la linea", l'arte di Miyazaki ha riportato la guerra dentro di lui, un elemento che il Maestro ha sempre scansato, parlandone in modo indiretto, trasfigurandola e tagliandola in dei modi che non le permettessero di prendere il sopravvento e renderla argomento decisivo. Nel fallimento che porta alla distruzione la sua arte trova la salvezza nell'atto di morire, perché da questo intento dipende il suo ultimo barlume di vitalità e dal suo avvenimento deriva la sua unica possibilità di rinascita. "La morte può essere una grande avventura", faceva dire Spielberg al suo Peter Pan, perché la conclusione di un viaggio è un obiettivo tanto nobile quanto la sua nascita. Ne ha pari dignità e pari carico di energia. Morire non è spegnersi, morire è affermarsi: l'ultima lezione di Takahata a Miyazaki e la fine del decennio di Si alza il vento.
Quando si parla di arte, morire assume addirittura la caratteristica di una funzione vitale. Una funzione necessaria per la propria resurrezione - "Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma", no? - soprattutto per la poetica di Miyazaki, che della vitalità ha fatto il suo tratto distintivo. Il Maestro ne Il ragazzo e l'airone celebra la morte della sua arte in quanto ultima funzione vitale in grado di darle un futuro, attraverso l'istintività, la casualità e la novità. Un nuovo Miyazaki nasce nel momento in cui rifiuta di percorrere gli stessi passi del corrispettivo precedente, affidando ad un ignoto a cui il Maestro ambisce (magari lo vedremo nel suo prossimo film, già annunciato). Rifiutare tredici pezzi accuratamente selezionati da ogni angolo dello spazio e del tempo per ripartire da qualcos'altro, e ricominciare a ricostruire. L'arte ha insegnato l'importanza della morte, compiendo la sua missione. E adesso sì, ha vita propria e può creare un nuovo satellite da lanciare nel cielo.