Recensione Cella 211 (2009)

Arrivano dalla Spagna le nuove icone cinematografiche del male, personaggi terribilmente violenti che inchiodano il grande pubblico alla poltrona e lo trascinano in prigione tra sommosse di rivoltosi, complotti governativi e misteriose fatalità. In un viaggio di sola andata.

Il prigioniero del terrore

Agghiacciante come un incubo che sommerge la mente, Cella 211 è uno degli ultimi spiragli che il cinema spagnolo ha aperto nella cinematografia europea e mondiale contemporanea. Passato quasi inosservato allo scorso Festival di Venezia, il quarto film del coraggioso Daniel Monzón è un thriller carcerario che unisce alla storia, di una tragicità shakespeariana, una cifra visiva forte e un'interpretazione esemplare. Quello che lo salva dai facili contenutismi pedagogici, che intaccano sempre più pellicole in sala, è una scelta precisa, che non può sfuggire allo spettatore: gli sceneggiatori non si schierano dalla parte delle autorità né dei detenuti, evitando anche il rischio di scivolare nei rivoli di una fantapolitica polemica e provocatoria, ma la messa in scena è cruda, tremenda al punto da non lasciare spazio alla minima pietas per nessuno dei personaggi. Al contrario, i protagonisti restano in un certo senso nell'ombra, con la sinistra ambiguità dei loro profili e delle loro azioni, sempre sul filo del rasoio, innescando continui meccanismi di alta tensione.

Con l'aiuto del bravo Jorge Guerricaechevarria Monzón riesce a scardinare un genere, il prison movie, che vanta numerosi esempi e fotocopie americane, e a rigenerarlo con uno stile quasi documentaristico, un tratto realistico - anche grazie agli eccezionali apporti della fotografia e della scenografia - che sviscera una feroce iperviolenza in grado così di non annaspare nel nodo più romantico della storia. La macchina da presa insegue da vicino, quasi come a marcarli stretti nel loro campo, i volti e i comportamenti di un branco di detenuti che organizzano una rivolta contro il duro regime carcerario e dei funzionari della sorveglianza e del governo che provano a sedarla con metodi opinabili. Nel bestiario umano dei prigionieri che si ribellano mettendo a ferro e fuoco il penitenziario, prendendo come ostaggi tre terroristi dell'Eta rinchiusi in un braccio speciale e vendicandosi degli agenti che in passato non gli avevano riservato un tenero trattamento, si ritrova suo malgrado Juan Oliver. Il giovane, felicemente sposato e in attesa del primo figlio, era andato a visitare l'istituto il giorno prima di prendervi servizio come secondino. Invischiato in una guerriglia estrema, capeggiata da Malamadre e dai suoi uomini, l'Apache e Tachuela, s'infiltra tra i detenuti e si finge uno di loro per salvarsi la pelle.
La storia del protagonista, con il quale si sente presto una premurosa empatia, viene raccontata con grande pathos dalle immagini mai edulcorate, che lo legano indissolubilmente al precipitare degli eventi: come aveva ben descritto il tedesco Oliver Hirschbiegel nel claustrofobico The Experiment, l'esasperazione in una situazione di forte pericolo può condurre all'annientamento di qualsiasi parvenza di umanità riducendo ai soli istinti animaleschi l'anima umana. L'esperienza di Juan (il promettente Alberto Ammann) ai confini del male, costantemente sull'orlo della morte e lungo il baratro che lo divide dalla libertà, che inizialmente crede sia nel mondo esterno alla dimensione carceraria, è un toccante viaggio negli inferi, che stravolge lo spettatore e lo conduce lentamente fino all'esplosivo e sconvolgente finale. Una conclusione che conferma le tinte nere dell'intera opera e che si concilia con la parabola narrativa dei due protagonisti: l'antieroe, il leader Malamadre, che ricorda con le sue mastodontiche sembianze nerborute e il suo viso baffuto e inquieto il protagonista refniano di Bronson, col quale condivide anche un'insana dose di follia e un pauroso delirio di onnipotenza superomistica che penetra attraverso lo sguardo sbieco dell'attore da accademia Luis Tosar (magistralmente doppiato dall'inimitabile Francesco Pannofino) e Juan (ribattezzato Mutande dal primo), un borghese piccolo che, a differenza del protagonista de Il profeta, non ha nessuna ambizione individualista, ma vorrebbe solo assicurare alla famigliola un benessere minimo.
Sopra le presenze spettrali delle due guide del film e a intrecciare fatalmente i loro destini colpisce nelle giunture estreme della struttura narrativa l'emblematica cella che dà il titolo all'opera: è tra quelle mura incise dalla disperazione e dall'agonia che si edifica la vera trappola, una prigione maledetta che attanaglia i poveri detenuti e di cui difficilmente potrà liberarsi lo spettatore dopo la visione.