C'è un detto popolare che recita "mai fidarsi delle acque chete"; già, perché è all'interno di quel moto ondulare di acque calme che si nasconde il pericolo più violento, perché del tutto imprevedibile. Ed è all'ombra di un'esistenza dimenticabile, che passa ignara dinnanzi agli occhi della gente, che si cela la mano della morte e lo sguardo famelico del mostro.
Come sottolineeremo in questa recensione de Il mostro delle Ardenne: nella testa di Monique Olivier, a essere soprattutto protagonista di questa docu-serie in cinque puntate su Netflix è soprattutto quella figura più imprevedibile e insospettabile, perché meno appariscente e più apatica, come Monique Olivier. Sono le acque che muovono il fare e il pensare, l'ordire e l'agire della moglie del mostro, le più calme di tutte. Ed è in questa calma apparente che si cela la vera essenza mefistofelica. Sette le vittime accertate cadute sotto le grinfie di Michel Fourniret e Monique; sette gli sguardi che hanno incrociato quelli della donna nella speranza di ritrovarvi compassione e un briciolo di aiuto. Sette le "membrane distrutte" e le famiglie spezzate. E Monique era sempre lì, all'ombra del mostro, complice e predatore, aiutante e aguzzina.
Il mostro delle Ardenne: nella testa di Monique Olivier, la trama
Le Ardenne sono un altopiano che si estende fino a toccare Francia, Lussemburgo e Belgio. Una zona tranquilla, fino a quando dal 1987 al 2003 il suo territorio diventa un campo d'azione e violenza a opera di Michel Fourniret. L'uomo ha infatti confermato di essere stato l'assassino di ben sette giovani vittime divenendo così il più famigerato killer francese. Ma ad attirare l'attenzione dei media è sua moglie, Monique Olivier, un vero e proprio enigma per gli inquirenti. Chi era veramente questa donna per Michel? È stata una pedina o una complice?
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All'ombra del mostro
Quello di Christophe Astruc e Michelle Fines non vuol essere un semplice report seriale di chi Monique e il marito fossero, o quali motivazioni si nascondessero dietro ogni azione compiuta. Ogni episodio si fa saggio visivo di una storia ancora piena di ombre e illuminata da poche luci, ed è in questo scarto fotografico che le informazioni trovano un passaggio, le confessioni si slegano da menti che le trattengono, e il dolore sconfina la cornice dello schermo per investire quello dello spettatore, in un abbraccio di sofferenza e poca speranza. Nonostante non vadano a fondo nei confronti di ogni singolo omicidio, scandagliando ogni efferatezza compiuta, e ogni azione eseguita, i registi riescono comunque nell'intento di comunicare la mostruosità di tale coppia. Anzi, è proprio in questo gioco di sottrazione che gli autori colgono l'attenzione dei propri spettatori, lasciando loro liberi di scoprire rivelazioni prima celate, informazioni reperite e storie sconosciute.
Il gioco visivo della paura
Il mostro delle Ardenne è soprattutto un'opera di montaggio: è nel giusto gioco degli incastri, tra interviste, dettagli di riprese e azioni ricostruite, che si ritrova il potere di tale opera. Sfruttando la portata dinamica che l'accostamento di tali immagini comporta nella mente dello spettatore, gli autori riescono a restituire il senso di ansia che travolgeva le vittime e i famigliari di quest'ultime. La musica che cresce in sottofondo, e l'accostamento sempre più martellante dei primi piani di famigliari e avvocati, detective e psicologi, accresce in maniera esponenziale un fattore di insopportabile disagio. Ogni inquadratura selezionata, ogni movimento di camera, e ogni momento ricostruito con l'ausilio di attori si fa danza macabra di eventi pronti a colpire e investire lo spettatore. Una seduta spiritica sotto forma di docu-serie che riporta in vita fantasmi di omicidi passati, rendendo udibili attraverso le parole di altri presta-corpi e altre immagini, la voce di vittime innocenti.
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Tra il vero e il celato
A esacerbare questo senso di umanità glaciale, di emotività messe in pausa a favore di un'animalità perversa, concorre una fotografia fredda, giocata sul predominio di tonalità cineree e azzurre, che tutto prendono e raffreddano, come corpi esanimi e cuori bloccati. Un abbraccio cromatico che affianca e si compie all'unisono di un ulteriore legame armonico, come quello che unisce le interviste agli avvocati, agli inquirenti e ai famigliari delle vittime, insieme alle ricostruzioni di certi momenti salienti delle azioni perpetrate da questa coppia mostruosa. Una scelta, questa, non sempre funzionale nell'economia del racconto. Mescolare il vero con qualcosa di ricostruito, e per questo inconsciamente percepito come falso, crea una discrepanza nella mente dello spettatore che compromette la totale immedesimazione di quest'ultimo all'interno della storia.
La frustrazione delle verità sospese
Dopo cinque episodi così attenti a non tralasciare ogni dettaglio, lo spettatore diventa pertanto esca perfetta di un'indagine approfondita. Il ritrovarsi alla fine con tante risposte, e altrettante domande rimaste però sospese, lascia in lui un senso di frustrazione; ed è qui che - magari involontariamente - si ritrova l'elemento più interessante di tutto Il mostro delle Ardenne: nella testa di Monique Olivier. Ogni episodio si tramuta in caso e poi processo a un uomo e una donna unitisi nel segno della mostruosità. Complici e predatori, prendono, violentano e uccidono giovani anime piene di sogni e speranze. Come in una tragedia greca, le loro vittime sono vergini da sacrificare sull'altare della disumanità più acuta e ingiustificabile; una violenza inaudita, a cui neanche i partecipanti di questa docu-serie sono riusciti a dare un senso. Ma è proprio sulla scia di una violenza così efferata che si insinua forte il dubbio che altri probabili corpi potrebbero essere nascosti sotto il velo dell'omertà. Ed è qui che nasce il senso di frustrazione nello spettatore: l'essere lasciato con l'amaro in bocca per una verità non del tutto svelata mette l'intera storia in contatto con lo stato più emotivo del pubblico a casa.
Così come i detective, gli avvocati e gli psicologi rimaranno senza una risposta, e i famigliari senza un corpo su cui piangere, anche lo spettatore rimane senza conferme e certezze circa vittime non identificate e nomi ancora incasellati come "scomparsi". Senza un epilogo decisivo, informazioni certe, lo sconforto che affligge lo spettatore è il medesimo di quello degli inquirenti intervistati, mentre Monique Olivier rimane zitta, chiusa nel suo silenzio manipolatorio come un vaso di Pandora impossibile da (ri)aprire.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione de Il mostro delle Ardenne: nella testa di Monique Olivier sottolineando come il punto focale dell'opera sia non solo informare su una storia agghiacciante che ha fatto rabbrividire la Francia, ma anche concentrarsi sulla figura meno sospettabile di tutte: Monique Olivier. Da probabile vittima, la moglie del vero Mostro delle Ardenne si tramuta in complice burattinaia, aguzzina e predatrice. Un nuovo identikit compiuto con attenzione e cura nei dettagli.
Perché ci piace
- Il finale ancor pieno di domande irrisolte, che mette in dialogo la frustrazione degli inquirenti con quella degli spettatori.
- La fotografia cinerea.
- Il montaggio martellante e in armonia con la colonna sonora.
Cosa non va
- Il poco spazio lasciato ai famigliari delle vittime.
- Un impiego ridotto dei materiali di archivio.