Il mostro dei mari: l'evoluzione delle "hunter novel" da Moby Dick al nuovo film d'animazione Netflix

Dalla decostruzione allegorica della natura umana alla comprensione esplicita del diverso: la nobilitazione letteraria e cinematografica dei "romanzi di caccia" dalla penna di Melville alla regia di Chris Williams.

Moby Dick: Gregoy Peck è il Capitano Achab
Moby Dick: Gregoy Peck è il Capitano Achab

L'arte può essere originalità o derivazione, e in quanto tale anche il cinema vive di questa dicotomia. Si dice che i più bravi creino ma che i migliori rubino. È vero: non con malizia ma, al contrario, con intenzionale bontà, per riformulare, ripensare, riplasmare un concetto, una tecnica, una storia sotto una nuova luce, manipolandola secondo uno specifico stile con rispetto per ciò che è stato e il giusto grado di novità per rendere la derivazione paradossalmente originale.
Dunque non tutto ciò che nasce derivativo è per forza di cose "rotto", creativamente povero da principio, invece ambasciatore di un'evoluzione del genere o del modello d'appartenenza che può essere a volte decisa o spesso priva di carattere. Rientra nel mezzo l'ultimo Il mostro dei mari targato Netflix, film d'animazione scritto e diretto da Chris Williams (Big Hero 6) che torna a ragionare sul rapporto uomo-bestia partendo da una base hunter novel per poi trasformarsi in altro. In sostanza Moby Dick che strizza l'occhio a Sinbad per dare alla luce un more of the same in stile Dragon Trainer, eppure in grado di rappresentare quella precisa evoluzione di cui sopra della letteratura o cinematografia afferente, partendo proprio dall'immortale penna di Herman Melville.

Il nichilismo abissale

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Moby Dick la balena bianca: Gregory Peck affronta la sua nemesi nel finale del film

Tra i maggiori e più famosi esponenti dell'American Renaissance, già nel 1851 il capolavoro Moby Dick era più di una semplice caccia alla balena, più dell'avventura narrata. Non fosse chiaro per chi mai si è approcciato al libro, a esplicitare bene il concetto è Daniel Pennac nel saggio Come un romanzo, dedicato al valore della lettura e ai diritti fondamentali del lettore. Il secondo di questi ultimi è quello "di saltare pagina", e l'autore prende come esempio proprio la mastodontica opera di Melville, dove l'incredibile avventura di Ismaele e Achab è sovente interrotta da lunghe e corpose digressioni scientifiche e tecniche sulla caccia alla balena, per un sapere di valore enciclopedico che lascia presto demordere i giovani e più pigri lettori dall'intenzione di concludere l'opera. Ma Moby Dick va anche oltre la pura avventura grazie a una marcata esplorazione tematica e intima dell'ignoto, rappresentato dagli abissi oceanici in cui naviga la Piquad e dai racconti del capitano Achab. Cacciare il "mostro" che in passato lo aveva menomato, per questo suo acerrimo nemico e pericolo da abbattere, è l'unica ragione di vita del capitano, che si imbarca insieme al suo equipaggio e al narratore alter-ego di Melville in una missione di vendetta e ossessione. La paura dell'inconoscibile e il terrore delle tenebre vengono mitigate da una flebile speranza di riscatto dell'uomo "alla guida", corrotto da emozioni sbagliate, in viaggio verso morte certa rispetto a una natura che mai attacca ma deve invece difendersi. Affrontando anche i limiti dell'uomo e dibattendo su verità e giustizia, confrontando l'avvedutezza di Ismaele (o anche del primo ufficiale Starbuck) alla compulsività di Achab, Melville sembra voler giungere a una sorta di superamento tanto concettuale quanto sostanziale di alcuni schemi comportamentali umani, soprattutto in relazione al mistero dell'ignoto in dittico contrario al sapere storico, tanto personale quanto socialmente riconosciuto (in contesto, la caccia stessa alle balene).

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Moby Dick la balena bianca: una scena con Gregory Peck

In questo senso, Moby Dick sembrerebbe essere un romanzo al contempo attivamente e passivamente nichilista, che attraverso Ismaele, Starbuck o anche Queequeg riconosce l'inutilità, la fallacia, l'arroganza di alcuni schemi, tentando di superarli con la ragione, senza guardare in faccia l'abisso che invece fissa Achab e che di fatto è destinato a risucchiarlo insieme a tutto il suo equipaggio. Nietzche descriverebbe i primi con la metafora del leone e l'ultimo con quella del cammello, sentenziando in conclusione la mancanza dell'immagine più importante, quella dell'Aurora, dell'effettivo superamento "dell'abisso e della decadenza", la libertà priva dei fardelli del passato, distante dall'istinto primordiale e aperta a nuove e diverse possibilità esistenziali. Pure se nell'opera di Melville, forse il più grande e nobile esempio di hunter novel, la speranza tenta di insinuarsi timidamente in qualche falla dello stolido scafo di Achab - che ricordiamo essere "l'uomo alla guida" -, in conclusione non c'è luce e non c'è salvezza, non c'è confronto. Resta infatti iconica la frase di Starbuck: "Moby Dick non ti sta cercando. Sei tu che senza senno cerchi lei". Tante sono state poi le trasposizioni cinematografiche dell'opera melvilliana, sia dirette che indirette, ma la più interessante e funzionale dopo l'iconico adattamento con Gregory Peck del 1956 è forse Heart of the Sea di Ron Howard, che raccontando la vera storia dell'abbattimento della baleniera Essex riesce a restituire in chiave meno romanza e più concreta tutte le sensazioni vissute e poi immortalate dall'autore in uno dei romanzi più belli, intensi e fondamentali dell'intera storia letteraria.

Cambia il modo di guardare "il mostro"

La locandina di Dragonheart
La locandina di Dragonheart

Nemmeno un secolo dopo la prima edizione di Moby Dick, il cinema comincia ad affiancare la letteratura come grande mezzo d'espressione e comunicazione narrativa, traducendo anche l'opera di Melville sul grande schermo. Si susseguono nei decenni titoli derivativi anche ispirati e appaganti ma comunque incapaci in alcuni ambiti di trovare la forza necessaria a cambiare importanti aspetti della storia, in effetti considerati fondamentali. Le coordinate letterarie, pure se tradotte nella settima arte, restano quindi intonse e non c'è mai un vero superamento delle stesse, un guardare oltre la barriera, continuando invece a scrutare l'abisso, magari diversamente (mai eguagliando Melville) ma senza innovare o personalizzare nel profondo il contenuto.
È al mutare della società che muta però lo sguardo al "mostro", persino la concezione dello stesso. Che l'uomo sia la vera bestia e l'animale che, per quanto più senziente, resti anche il più arrogante e distruttivo mai apparso sulla Terra, è un qualcosa esplicitato da sempre: nella Bibbia, nei più famosi scritti filosofici dall'antica Grecia in poi, nei poemi cavallereschi del ciclo arturiano. La nostra fallacia è ovunque, ma poche volte un mostro, in quanto mostro, è stato accettato come pari o addirittura amico dell'uomo, pure se prima nemico giurato. In sostanza, mai una qualsiasi bestia o essere mitologico o strano animale cacciato e braccato dall'uomo in quanto pericoloso "per natura" poteva essere in qualche modo umanizzato nel profondo. Il riferimento in concreto resta ancorato al discorso in esame, dunque a quelle che definiamo hunter novel e alla loro evoluzione tra letteratura e cinema, dove fino a un certo momento poco si era pensato alla possibilità di un'amicizia inter-specie come grande balzo in avanti verso l'aurora del nichilismo abissale.
Chiarito questo, uno dei primi e grandi esempi è rappresentato dal meraviglioso Dragonheart di Rob Cohen, dove Bowen, cacciatore di draghi, crea un forte legame emotivo con l'ultimo esponente della razza nemica, giungendo a confronto, comprensione, aiuto e amicizia. Anche Bowen come Achab è guidato da errate convinzioni e da una ferrea volontà di riscatto che sa anche di vendetta, ma al contrario dell'inflessibile capitano della Pequod lui riesce a cambiare, a superare la propria ostinazione e accettare la verità, abbandonando infine la sua crociata e anzi collaborando con Draco per sconfiggere il vero mostro, ovviamente umano, ovviamente in una posizione di potere, di guida.

Una immagine del film Dragon Trainer (How to Train Your Dragon)
Una immagine del film Dragon Trainer (How to Train Your Dragon)

Un vero game changer, se vogliamo, anche se il film che per derivazione e sapere enciclopedico - pure se fantasioso - rappresenta meglio di qualsiasi altro prodotto l'evoluzione in positivo del genere è senza dubbio Dragon Trainer. La saga di Chris Sanders e Dean DeBlois tratta dai romanzi di Cressida Crowell unisce l'ispirazione melvilliana ai draghi, creando un mondo dove il popolo vichingo guidato dal loro irreprensibile leader Stoick l'Immenso è in eterna lotta con questi ultimi, di cui la Furia Buia è il più pericoloso e raro e spaventoso di tutti, esemplare per altro mai catturato. Accade però che il saggio figlio di Stoick, Hiccup - un po' l'Ismaele della situazione - riesca a stringere amicizia con il Drago a mostrare quanto straordinario possa essere il loro contributo, imparando più di quanto si possa insegnare. Non solo riesce a scardinare ogni convinzione del padre, considerato il più grande e forte cacciatore di draghi del loro popolo, ma riesce nel profondo a modificare in meglio la società in cui vive, aprendola al nuovo e al diverso e trascinandola in una nuova era di convivenza e accettazione, di giustizia per i draghi e verità per la comunità a cui appartiene. Non solo "Achab si salva", ma comprende i suoi errori, apre il suo cuore e "ringrazia Ismaele e anche Moby Dick", senza sputarle addosso il suo odio con l'ultimo e venefico respiro. È in Dragon Trainer che c'è il vero ribaltamento dell'hunter novel, la realizzazione - persino in eccesso - di un'ideale desiderato e tracciato da Melville ma ancora impossibile da concretizzare.

Dragon Trainer 3, Intervista al regista: "Quando due draghi si innamorano, tutto diventa pericoloso"

L'unione fa la forza

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Il Mostro dei Mari: un'immagine del film animato

Arriviamo in conclusione a Il Mostro dei Mari di Chris Williams, che unisce un po' il tutto in un prodotto sì, derivativo all'eccesso, ma anche capace di unificare in modo originale un'intera evoluzione di genere in un unico e riuscito lungometraggio animato. Diciamo questo perché l'intera scenografia ricorda da vicino un mix tra Sinbad della Dreamworks e Pirati dei Caraibi, però inserito in un contesto dove la caccia ai mostri è addirittura nobilitata dalla Corona nella missione di "tracciare i mari ancora sconosciuti e liberarli dalle creature ostili che li abitano" - un po' come i corsari, insomma. Così si muove infatti l'Inevitabile, la nave cacciatrice più famosa al mondo guidata dal Capitan Crow, ossessionato da una creatura in particolare: la Furia Rossa, un gigantesco titano dei mari che tempo addietro aveva cavato l'occhio a Crow. Col proseguire del racconto, però, accadrà qualcosa di inaspettato che sconquasserà nel profondo le convinzioni del protagonista, Jacob Holland, portandolo a combattere per la verità contro ogni ostinazione possibile. Pur essendo un prodotto profondamente derivativo, Il mostro dei mari riesce in un'operazione di ricavo e ricalibro del mondo d'azione e delle tematiche sempreverdi introdotte da Melville. Fa tesoro di ogni singola porzione evolutiva del genere per arrivare a una sintesi che, seppure non perfetta, resta accorta, esaustiva e funzionale - oltre che piacevole e adatta a tutta la famiglia (senza costringere nessuno al "diritto di voltare pagina"), in grado di superare il peso del sapere storico senza guardare in faccia l'abisso per non "morire di una grande morte" come Achab, spinti dalla vendetta, dalla testardaggine o dalla mania, e invece "vivere una grande vita" e basta.

Il mostro dei mari, la recensione: all'arrembaggio su Netflix!