Recensione Arancia meccanica (1971)

Il grande senso geometrico del cinema di Kubrick diventa insieme di scatti futuristici di una realtà irreale, non certo per la violenza in essa insita, ma per il contesto in cui la stessa è rappresentata. E per il modo spudoratamente intellettuale con cui Kubrick l'affronta.

Il gulliver, i Drughi e altre storie

L'apparente esaltazione dell'ultraviolenza in realtà è un deliberato scacco alla stessa. Per cui Arancia meccanica si presenta come un inno della e contro l'ultraviolenza. Un inno alla tanto decantata (ma più di frequente vituperata) libertà di scelta. Il film di Stanley Kubrick è la dissociazione emotiva fatta azione. E' la negazione dell'immedesimazione con l'atto mimico e con i gesti dei Drughi, l'infame gang con le bombette e le ciglia finte. Perché il protagonista Alex (A-lex: senza legge) è innervato da una vitalità non solo esuberante e brutale, ma anche disgustosa per gli atteggiamenti con cui essa si manifesta. Il grande senso geometrico del cinema di Kubrick in Arancia meccanica diventa insieme di scatti futuristici di una realtà irreale, non certo per la violenza in essa insita, ma per il contesto in cui la stessa è rappresentata. E per il modo spudoratamente intellettuale con cui, tutto sommato, Kubrick l'affronta.

Secondo lacelebre analisi di Pauline Kael pubblicata sul The New Yorker, Arancia meccanica potrebbe costituire l'eventuale commedia porno fantascientifica girata da un rigido professore tedesco. Suggestione affascinante questa della Kael e che trova riscontro nella sublime tecnica del nostro, che con Arancia meccanica si sviluppa nel film probabilmente più denso di movimenti di macchina e con un largo uso di ralenti, accelerazioni, zoomate e carrelli. E' un modo parossistico quello in cui si esplica l'ultraviolenza kubrickiana. Perché, come affermò il regista, è con gli occhi di Alex (un Malcolm McDowell mai più così in palla) che noi "leggiamo" la storia (come l'esplicito zoom iniziale ci fa capire). E tramite gli occhi del capo Drugo noi vediamo, ancora una volta, il riflesso del pessimismo radicale del regista verso l'uomo e i suoi istinti. Un'amarezza di fondo che sovraccarica di maschere ambigue e di depravazione liofilizzata il già destabilizzante romanzo di Anthony Burgess. E poco importa se si parli di Alex o dei suoi "riabilitatori". Se si parli delle vittime o dei carnefici. O, ancora, se si parli dello scrittore (un Patrick Magee somigliante in modo impressionante al professore alchimista di Nosferatu) che, con i suoi di occhi, non fa capire se stia soffrendo o stia godendo per lo stupro della moglie.

I ritmi coreografici immersi nell'estetica da comics e nei musicals di Ginger Rogers e Fred Astaire, visti in chiave distorta e perversa (con l'apice dell'iperbolica "sequenza-balletto" sulle note di Singin' in the Rain), vengono esaltati dal feroce approccio psicologico scelto da Kubrick per "impiantare" gli occhi di Alex nello spettatore. Che, da par suo, è costretto ad accoglierli con tante armi "improprie". Il montaggio "attrattivo" di marchio ejzensteijniano. I tanti fuochi d'artificio che determinano il senso di straniamento prodotto dalle scenografie surreali e da Pop Art. Le luci effettate. I colori accesi e fortemente contrastanti. Le prospettive distorte. La musica classica "riarrangiata" elettronicamente da Wendy Carlos (la manipolazione del suono come allucinazione postmodernista). Il bizzarro linguaggio dei Drughi (il Nadsat, un mix di russo, inglese e slang).

ln tutto questo furore registico, Kubrick riesce ad accrescere miracolosamente l'effetto di grottesco nella pulsione scopica di chi guarda il film. Anche se non bisogna dimenticare che i tempi non saranno mai maturi per decretare Arancia meccanica come il più grande sberleffo tirato alla natura umana.