All'arte, e in particolare alla "grande arte", si possono attribuire due diverse dimensioni, apparentemente inconciliabili. La prima è una dimensione 'atemporale', libera da ogni vincolo storico, geografico o culturale, e necessaria pertanto a garantire all'arte il proprio carattere di eternità. La seconda dimensione, invece, è riferibile al contesto in cui un'opera d'arte nasce e prende forma: perché l'arte, è bene ricordarlo, è sempre e comunque il frutto della propria epoca, e talvolta può arrivare addirittura a 'rincorrere' la storia, nel tentativo di agguantarla e magari di superarla.
È quanto accaduto a uno dei massimi talenti del cinema, Charlie Chaplin, quando sul finire degli anni Trenta iniziò a lavorare alla stesura de Il grande dittatore: un film il cui valore si può definire assoluto, tanto da trascendere le circostanze della sua realizzazione, ma anche un film la cui genesi e il cui sviluppo non possono prescindere dal tragico periodo che il mondo intero stava attraversando. Il grande dittatore ha da poco festeggiato il suo settantacinquesimo anniversario, e dall'11 gennaio ritorna in sala in una versione restaurata a cura della Cineteca di Bologna; e la sua riedizione ci offre lo spunto per tornare a riflettere su questo capolavoro, sull'impatto devastante esercitato sul pubblico alla sua uscita originaria e su quello che l'opera di Chaplin è in grado di trasmettere agli spettatori di oggi, in un presente tutt'altro che privo di orrori...
La 'nascita' di un dittatore
Immaginate la scena: ci troviamo a New York, al Museo d'Arte Moderna, intorno alla metà degli anni Trenta. In una saletta privata, un giovane Luis Buñuel (sì, proprio lui, il futuro maestro del surrealismo, già autore dello sconvolgente Un chien andalou), ingaggiato dal MOMA, sta proiettando Il trionfo della volontà, il pionieristico documentario di propaganda nazista firmato da Leni Riefenstahl, a beneficio di due spettatori d'eccezione: il regista francese René Clair e il comico inglese Charlie Chaplin. Le loro reazioni non potrebbero essere più diverse: se Clair rabbrividisce di fronte alle immagini di Adolf Hitler e resta sbalordito dalle qualità estetiche del film della Riefenstahl, Chaplin non può fare a meno di scoppiare a ridere ogni qual volta sullo schermo compare la figura del Führer tedesco. E paradossalmente è Il trionfo della volontà, monumento all'invincibilità del regime hitleriano, a instillare nella mente di Chaplin l'idea per il suo successivo progetto: una satira sul dittatore austriaco che, sulla sponda opposta dell'Oceano Atlantico, già faceva tremare l'Europa con le sue ambizioni espansionistiche e il suo feroce antisemitismo.
Il grande dittatore, tuttavia, si preannuncia come un progetto tutt'altro che semplice: il Governo della Gran Bretagna, patria di Chaplin, mette subito in chiaro che proibirà la diffusione del film sul territorio del Regno Unito, per evitare problemi diplomatici con la Germania. Chaplin, in compenso, riceve il sostegno del Presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, e si imbarca così nell'impresa più ambiziosa della sua carriera: non solo perché, dopo aver ottenuto un'enorme popolarità grazie al cinema muto, l'attore/regista si accinge a cimentarsi per la prima volta con un film parlato (il suo precedente capolavoro, Tempi moderni, era una pellicola sonora ma priva di dialoghi, al di là della canzone Je cherche aperès Titine eseguita in grammelot, cioè in una lingua inventata e senza senso), ma anche per gli elementi controversi del soggetto, ovvero una rielaborazione satirica della figura di Hitler stesso mediante la quale veicolare una denuncia delle persecuzioni contro gli ebrei messe in atto dal Cancelliere tedesco (persecuzioni su cui molti governi europei preferivano mantenere il silenzio).
Il volto ridicolo del nazismo
Ne Il grande dittatore Chaplin racconta le storie parallele di due personaggi speculari ma identici nell'aspetto, affidando a se stesso entrambi i ruoli: un imbranato barbiere ebreo che, mentre prestava servizio nelle file dell'esercito dell'immaginaria Tomania durante la Prima Guerra Mondiale, è rimasto vittima di un'amnesia, facendo ritorno dalla sua famiglia solo vent'anni più tardi; e Adenoid Hynkel, lo spietato dittatore della Tomania, il quale progetta di invadere gli Stati confinanti e impone agli ebrei di restare rinchiusi nei ghetti, subendo vessazioni e atti di violenza. La mansuetudine e la dolcezza del barbiere, figura dalla limpida innocenza che richiama inevitabilmente alla memoria quella analoga del Vagabondo (la "maschera" più famosa di Chaplin), sono dunque messe in contrasto con la rabbiosa arroganza di Hynkel, che nelle sembianze (inclusi gli immancabili baffetti), nella divisa e negli atteggiamenti ricalca da vicino l'immagine di Adolf Hitler.
Attraverso il personaggio di Adenoid Hynkel, pertanto, Chaplin ha modo di mettere alla berlina l'uomo più temuto d'Europa. La gestualità esasperata del dittatore, il grammelot senza significato dei suoi discorsi in pubblico, che riproduce le aspre sonorità della lingua tedesca, la vocalità stridula dai toni 'urlati' e i suoi irrefrenabili accessi d'ira... il ritratto di Hynkel va ben oltre la semplice caricatura: ne Il grande dittatore, la comicità buffonesca del protagonista diventa lo strumento in grado di incrinare la gigantesca "macchina del consenso" messa in moto dal nazismo sette anni prima; la natura inesorabilmente ridicola di Hynkel, che si infuria con il suo incompetente Ministro della Guerra Herring (un Billy Gilbert che riproduce alla lettera il gerarca nazista Hermann Göring) e si fa prendere in giro perfino dalla sua stenografa, è l'insanabile crepa nel mito pseudo-religioso della grandezza del Führer e del Terzo Reich. Nel frattempo, mentre Chaplin è impegnato nelle riprese del film, dall'altra parte del mondo la Storia incalza il cinema: la Germania invade la Polonia e subito dopo la Francia, quasi come una sinistra conferma del carattere profetico dell'opera di Chaplin.
Un capolavoro fra comicità e satira
Oltre alla sua essenza di film à clef (comprensibilissimo, in cui tutti i riferimenti arrivano dritti al bersaglio senza possibilità d'errore), Il grande dittatore recupera pure alcuni modelli del precedente cinema di Chaplin, a partire da un tipo di comicità marcatamente fisica e slapstick: dalle gag delle sequenze iniziali, sulle goffaggini del barbiere fra le truppe della Tomania, alle successive baruffe fra l'uomo e le famigerate Camicie Grigie, ovvero il braccio armato del regime di Hynkel; dal delicato romanticismo del rapporto fra il barbiere e la giovane e coraggiosa Hannah (interpretata da Paulette Goddard, allora moglie di Chaplin nonché sua partner già in Tempi moderni) alla scena delle monete nascoste nel budino, passando per il meraviglioso piano sequenza della rasatura di un cliente al ritmo della Danza ungherese n° 5 di Brahms, perfetto esempio della genialità dell'attore nel creare un connubio fra il ritmo dei movimenti e quello della musica.
Gli strepitosi spunti di comicità, ovviamente, riguardano anche l'altro comprimario del film, Adenoid Hynkel, in particolare quando Chaplin, allargando il raggio d'azione della sua satira politica, decide di affiancargli una 'spalla' a dir poco formidabile: Jack Oakie, caratterista americano chiamato a vestire i panni del corpulento e sguaiato Benzino Napoloni, il dittatore della Batalia (in originale Bacteria), in visita ufficiale in Tomania, in nome di un'alleanza con Hynkel minata da invidie, rivalità e capricci infantili. La tagliente imitazione del dittatore italiano Benito Mussolini, l'atmosfera di melliflua quanto falsa cortesia fra i due despoti, scandita da commenti al vetriolo, e i continui battibecchi fra Hynkel e Napoloni danno vita infatti ad alcuni fra i momenti più divertenti del film: gli imprevisti dell'arrivo di Napoloni in treno, la "gara delle sedie" fra Hynkel e Napoloni dal barbiere e la rissa finale a colpi di cibo e di spaghetti. A sottolineare l'ipocrisia del retaggio fascista, per la prima edizione italiana del film furono tagliate le scene in cui compariva la signora Napoloni (Grace Hayle), la sgraziata moglie di Benzino, che adombrava Rachele Guidi, moglie di Mussolini (queste scene sono poi state reintegrate a partire dal 2002).
Il mondo sospeso
Tuttavia, assieme all'intento di sottolineare storture, contraddizioni e paradossi dei vari fascismi europei, dal film di Chaplin trapela anche un'altra urgenza, ancora più pressante: l'allarme per un mondo che sembra impazzito, in una fase in cui tutti gli equilibri politici sono ormai collassati. A questa esigenza corrisponde la scelta, da parte del regista, di inserire all'interno della pellicola una scena dal tono molto differente: la celeberrima sequenza in cui Adenoid Hynkel fa volteggiare sulla propria scrivania un mappamondo, destreggiandosi con infantile leggerezza con questo oggetto. Un'immagine emblematica dell'intero film, basata sul contrasto stridente tra la ferocia del dittatore e la sua improvvisa soavità, spezzata però dallo scoppio del mappamondo fra le mani di Hynkel. L'amarissima ironia di cui è pervasa questa scena è il preludio alla catastrofe in procinto di esplodere, ma si ricollega pure al dualismo dei due protagonisti, simboli - ma dall'identico volto - dei due poli opposti dell'animo umano. Charles Chaplin Jr, il figlio di Charlie, riporterà in seguito le parole del padre a proposito di Hitler: "Lui è il pazzo, io il comico. Ma avrebbe potuto essere l'esatto contrario".
La crescente inquietudine di Chaplin nei confronti di Hitler sfocerà in autentico orrore con l'emergere della realtà dell'Olocausto, al punto da spingere il regista ad affermare che, se fosse stato a conoscenza della vera portata di quella tragedia, non avrebbe avuto il coraggio di girare un film del genere. E a tale stato d'inquietudine va ricondotto anche il monologo pacifista pronunciato nel finale dal barbiere, scambiato erroneamente per Hynkel: una sequenza spesso contestata dalla critica, poiché ritenuta eccessivamente didascalica, ma inscindibile dal contesto storico relativo a Il grande dittatore. Chaplin affida infatti alle parole del barbiere il messaggio umanista del suo film: un commosso apologo della solidarietà e della dignità umana contro le abiezioni del nazifascismo, in cui la libertà e l'odio sono identificati come le sole scelte di campo possibili, mentre il richiamo alla responsabilità dell'individuo e della collettività ("Voi non siete macchine, siete uomini") risuona come un grido d'allarme a cui non è più possibile sottrarsi, in Europa né tantomeno in America. Un allarme che ancora oggi, settantacinque anni dopo, fra tentativi revisionisti e negazionisti e rigurgiti di intolleranza e di razzismo tristemente diffusi (perfino nel cuore delle democrazie moderne), conserva fin troppi elementi di tragica attualità.